“Andiamo tutti a votare per picconare il porcellum, la peggior legge elettorale della storia repubblicana”, si affannano a gridare Antonio Segni e Giovanni Guzzetta. I promotori si sono perfino appellati al presidente Napolitano, perché garantisca la visibilità del referendum come ha fatto con successo per la lista Pannella alle europee.
La moral suasion del presidente Rai Garimberti sui direttori di tg, gr e reti è stata forse tardiva, se a cinque giorni dal voto di domenica a cui in teoria sono chiamati 47,5 milioni di elettori, un italiano su due ignorava che si tratta di un referendum e un numero altissimo non ne conosceva i contenuti. E va bene che in 30 località ci sono i ballottaggi, ma l’ estate è scoppiata. E riuscire a portare alle urne il 50 per cento dei votanti e raggiungere il fatidico quorum appare un’ ardua impresa.
I quesiti
Sono tre, su schede di colore diverso. La legge attuale, proporzionale, prevede un premio di maggioranza da attribuire (su base nazionale alla Camera, regionale al Senato) o alla singola lista vincente o alla coalizione di liste. Il primi due quesiti propongono di eliminare la seconda possibilità. Chiedono infatti di cancellare il collegamento fra liste alla Camera (scheda viola) e al Senato (scheda beige chiaro) e il premio alla coalizione. Il terzo (scheda verde) chiede invece di abrogare le candidature plurime, cioè la possibilità, per la stessa persona, di candidarsi in più circoscrizioni.
Cosa cambia
Se passasse il sì alle prime due domande, il premio di maggioranza verrebbe attribuito alla singola lista vincente. E verrebbero innalzate le soglie di sbarramento, al 4% alla Camera, all’ 8% al Senato. Il sì alla terza domanda cancellerebbe invece i ripescaggi, che permettono all’ eletto in più circoscrizioni di decidere il destino degli altri, stabilendo dove ritirarsi. La porcata resterebbe però intatta: le liste rimarrebbero bloccate e scelte dall’ alto.
Gli obiettivi originari
Nel 2007, quando il referendum viene varato, il primo obiettivo è abolire la frammentazione dei partiti, causa di ingovernabilità, favorendo il bipolarismo. Gli entusiasti sono in entrambi gli schieramenti: da Fini a Parisi, dagli azzurri Quagliariello e Calderisi agli amici di Veltroni. Il neosegretario Pd però non firma perché i partitini alleati minacciano sfracelli contro il governo Prodi. Che cade comunque. Ma poi si va a votare e a ridurre i partiti ci pensano gli elettori, lasciandone in parlamento solo 5: Pdl e Pd, Lega, Udc e Idv. Nel quadro politico semplificato gli entusiasmi traballano.
L’ altalena del Pd
Il Pd maggioritario non sfonda ma non è più ricattabile dai piccoli e si ricompatta. Due mesi fa la direzione si pronuncia per il voto e per il sì. Rutelli resta contrario, Marini e D’ Alema rientrano nei ranghi. “Il mio sì è legato all’ impegno per una nuova legge”, precisa Baffino. La campagna del Pd, in forte ritardo, fa pensare però a una convinzione a metà. Un nuovo timore serpeggia infatti nell’ opposizione. Gli dà voce Di Pietro: “Con la norma che esce dal referendum, un partito del 30% può occupare il 55% e farsi maggioranza da solo”. Ergo, l’ Idv voterà no. Come i radicali. “Se vincesse il sì, i collegi uninominali resterebbero di là da venire”, dice Bonino. Pannella è oltre, con Di Pietro. Per l’ Udc, geneticamente antibipolare, non c’ è partita.
Berlusconi e Bossi
Da sempre bipolarista e favorevole al referendum per oggettiva convenienza, tanto più da quando esiste il Pdl, il Cavaliere ha ondeggiato, nascondendo la sua predilezione per non dispiacere al suo principale alleato. La Lega è così ostile che il ministro Maroni, dopo essersi battuto contro l’ election day che avrebbe garantito il quorum, si è pronunciato pubblicamente per l’ astensione. E Bossi ha garantito appoggio alle amministrative in cambio di un disimpegno del Pdl: che infatti lascia libertà di coscienza. A restare fedele al sì è Fini, con altri leader di Alleanza nazionale.