Da Germania e Cina una formula magica: 40 per cento al 2020. È la proposta di taglio delle emissioni serra che terrà banco fino a dicembre, quando a Copenhaghen si riunirà il vertice delle Nazioni Unite sul clima.
Per la prima volta sul tavolo del negoziato c’ è una cifra in linea con le preoccupazioni degli scienziati che chiedono un taglio dell’ 80 per cento rispetto ai livelli del 1990 in tempi rapidi. Rapidi naturalmente va inteso in senso industriale: c’ è da ricostruire la macchina energetica che per due secoli si è adagiata sulle scorte di combustibili fossili ignorando il rischio di un disastro climatico.
Il traguardo è dunque interessante: che realmente si raggiunga è tutto da vedere. Pechino ha ufficialmente appoggiato l’ idea di un taglio del 40 per cento da parte del cartello dei paesi industrializzati, mentre per quanto riguarda le proprie emissioni è rimasta ferma a una generica disponibilità alla riduzione senza fissare paletti.
Tutto ruota sempre attorno alla formula delle comuni ma differenziate responsabilità: vuol dire che chi ha inquinato più a lungo deve impegnarsi di più. Ma quanto di più? E che tagli è giusto pretendere da paesi che, pur essendo arrivati recentemente alla fase industriale, figurano oggi ai vertici dell’ inquinamento mondiale?
La bozza della possibile intesa di Copenghen, che da qualche giorno circola tra gli addetti ai lavori costellata da centinaia di parentesi che indicano i punti su cui non c’ è ancora accordo (quasi tutti), sta cominciando a produrre una reazione a catena di risposte politiche.
La Germania ha proposto che il cartello dei paesi industrializzati imiti l’ esempio europeo di adesione al protocollo di Kyoto: si fissa un tetto collettivo (la proposta è il 40 per cento) e si suddivide il carico in maniera proporzionale alla forza e alla spinta verso l’ innovazione industriale dei vari paesi. Per chi non se la sente di assumere un impegno così forte con misure solo domestiche, si allarga il ventaglio delle opzioni di intervento a favore dell’ efficienza e delle rinnovabili da mettere in campo nelle aree più povere del mondo.
Un’ iniezione di green economy pensata anche come un ricostituente per un’ economia globale che ha bisogno di ripartire. E su questa ipotesi, per la prima volta, si registrano aperture da parte dei paesi non Ocse. Si va dalla Cina a Tuvalu, una delle piccole isole che rischiano di venire sommerse dall’ innalzamento dei mari e che ora dichiara che anche i meno poveri tra i paesi in via di sviluppo devono fare la loro parte nel taglio delle emissioni serra.