A Bissau erano tutti convinti che il presidente João Bernardo Vieira avrebbe reso impossibile il lavoro al neo primo ministro Carlos Gomes Júnior e che l’ avrebbe alla fine deportato. In Africa non si rimuove qualcuno con una lettera o con un voto di sfiducia, ma si ricorre spesso a metodi più sbrigativi. Invece la malia creola aveva ingannato anche i più acuti osservatori, nascondendo dietro la polvere e i colori di Bissau la rivalità tra il presidente e un’ altra figura: il capo di stato maggiore Batista Tagmé Na Waié. E così regolamento di conti si è concluso con l’ assassinio dei due protagonisti.
Nella Guinea Bissau è caos. Certo, il futuro è incerto, perché il presidente era da oltre vent’ anni, tra un esilio e un ritorno da vincitore, alla guida dell’ indipendenza guineana. Considerato il padre – padrone del piccolo stato che il Portogallo aveva ceduto nel 1973, Vieira era l’ erede del compagno di lotta e padre della patria Amílcar Cabral, l’ eroe nazionale tradito dal destino e dai propri uomini, che lo assassinarono sei mesi prima di vedere concessa l’ indipendenza al paese, dopo vent’ anni di battaglia partigiana. A Bissau, capitale del paese, le case portano ancora i segni della guerra civile della fine degli anni Novanta. Anche il palazzo presidenziale, bombardato allora, spicca derelitto sulla piazza principale come fosse un monumento alla memoria. Non urta molto la psicologia e l’ estetica africana il fatto che a pochi metri sorga il nuovo parlamento.
D’ altronde, quando durante la guerra civile iniziò a scarseggiare la luce elettrica, la gente pensò bene di svellere i pali e riciclare i fili dell’ alta tensione, perché nella mentalità di questa latitudine se una cosa non serve più va eliminata. La luce elettrica è indispensabile per un europeo, un po’ come mangiare due volte al giorno, mentre in Guinea Bissau si procede tranquillamente con la luce elargita dal sole e un pasto quotidiano. È da questi segnali, uniti alla lentissima ma inesorabile decadenza dell’ architettura portoghese, che si vede come il progetto coloniale fosse destinato al fallimento perché cercava un processo di civilizzazione a tratti impossibile.
Una città fatta di container
Attorno alla piazza principale, che offre il contrasto tra il palazzo presidenziale distrutto e il nuovo parlamento, c’ è un quadrilatero di case protette da alti muri di cinta. Sono le case dei dignitari, ma soprattutto quelle dei trafficanti di droga. Non di rado le due figure si sovrappongono. Il parco auto di Bissau è impressionante: Hummer, Suv prestigiosi, macchine sportive dall’ assetto bassissimo sono il biglietto da visita di ville inaccessibili dalle quali emergono grandi paraboliche satellitari e il rumore costante dei generatori elettrici. In Guinea Bissau, aeroporto compreso, la luce viene prodotta dai generatori, che specie la sera entrano in funzione. La capitale, bellissima e non asfaltata, abbandonate le vecchie case in stile portoghese, ora è fatta per lo più di container sbarcati dalle navi, che ora sono diventati abitazioni e negozi coloratissimi.
Vieira era rimasto attaccato alla vecchia casa della madre. Vi aveva installato la residenza presidenziale e nei pochi giorni che trascorreva nel paese abitava ancora lì, circondato da mobili antichi. La gente sapeva di questo vetusto arredamento, perché in occasione del precedente tentativo di assassinio, nel novembre scorso, i giornali avevano pubblicato la foto di quegli ambienti. Nei giorni successivi all’ omicidio del presidente si è appreso che sua moglie è sopravvissuta all’ attentato. Una notizia “occidentalizzata” che in Guinea Bissau, dove vige ed è ampiamente praticata la poligamia, ha messo in circolazione un interrogativo molto poco occidentale: quale moglie? Ultimamente gli esponenti delle classi dirigenti tendono a sancire legalmente una sola unione e a considerare le altre sotto il profilo della legge naturale, ma resta il fatto che questa piccola nazione è un mondo che procede secondo le sue regole e le sue tradizioni tribali, chiuso alle ingerenze esterne: economiche, militari, ma anche culturali.
Nelle prime ore dopo l’ attentato, Radio Sol Mansi, la radio del Pime (il Pontificio Istituto Missioni Estere attivo nel paese), è stata la sola voce a tenere informata la popolazione sugli eventi. In realtà la confusione e l’ incertezza erano totali, e dai microfoni di Sol Mansi uscivano appelli alla calma e inviti a non lasciare le proprie case, in attesa di indicazioni da parte delle autorità. La redazione della radio è un esempio di quel che potrebbe essere questo paese se il cinismo della sua classe dirigente, quello degli altri leader regionali e le mire europee non comprimessero le forze nuove e “pulite”. I giovani sono tanti, non si occupano solo di politica e società, ma anche di cultura, musica e sport. Nelle sale si respira l’ aria di un gruppo di lavoro che crede e spera in quello che fa.
Quando salta la luce in aeroporto
Con la regia del superiore del Pime, padre Antonio Clari, si può conoscere il resto del paese, e si capisce come l’ avventura dei padri missionari sia una vicenda umana che vive a contatto con la realtà ma allo stesso tempo la trascende. Per arrivare a Suzana, quasi al confine con il Senegal, si percorre una strada impossibile e isolata da tutto, dove una croce e un camion sventrato da una mina sono il monumento commemorativo all’attentato del marzo 2006. Tutti sanno che quell’ ordigno è stato piazzato per vendetta rispetto ai fatti della guerra civile, e il coinvolgimento di Nino (soprannome di João Bernardo Vieira), che voleva far pagare ai felupe quest’ etnia di confine, le troppe complicità con i cugini senegalesi, è più di un’ insinuazione. Quando in un paese è possibile che una vendetta covi così tanti anni prima di compiersi, che colpisca la popolazione civile, e che tra i principali sospettati ci siano i vertici dello Stato, si capisce come il cammino verso la democrazia sia davvero complicato. Poi si riflette un attimo ancora, ci si ricorda di Sarajevo, e si cerca di non giudicare sull’ onda dei sentimenti.
All’ aeroporto, per lasciare il paese, la sensazione netta non è quella di un aereo che parte, ma di un aereo che ti viene a prendere. Su quest’ unico volo incombe sempre il mistero, anche durante il check – in: arriverà da Lisbona? Ripartirà? Ma proprio nel mezzo di queste domande il generatore salta, lasciando tutti al buio e la pista senza luci. L’ addetto inizia pazientemente a compilare a mano le carte d’ imbarco, mentre le valigie le porta via un facchino senza divisa. Tutto questo succedeva due settimane fa. E quando dopo qualche tempo le luci della pista si sono riaccese, l’ aereo è finalmente atterrato, sbarcando gente che senza saperlo veniva ad assistere agli ultimi giorni del regno di “Nino” Vieira.