Con tutto il rispetto dovuto a Dario Franceschini, non sembra proprio il caso di perdere tempo nominando reggenti e rinviando il confronto, o lo scontro, e insomma il congresso, al prossimo autunno. Si sa, i tempi tecnici di un congresso sono lunghi, ma in certi frangenti la volontà politica deve pur trovare la strada per imporsi. Purché il congresso non si svolga per procura. I protagonisti veri della contesa, quelli chiamati a far capire alla loro gente e all’ opinione pubblica qual è il “nuovo” di cui sono portatori, devono scendere in campo con le loro idee e con i loro programmi. Tutto questo il Pd lo deve in primo luogo a se stesso e alla sua gente e alle reiterate divergenze all’ interno del partito stesso. E così si è trovato all’ improvviso a stabilire se ha un futuro o se la sua storia è finita prima ancora di cominciare. Ma lo deve pure a quella democrazia italiana di cui voleva essere la principale forza di rinnovamento.
“Non è questo il partito che sognavo da una vita, e la colpa è in primo luogo mia”, dice Walter Veltroni nel giorno dell’ addio, con una dignità del tutto ignota a molti protagonisti della nostra politica. Ma, al di là dei suoi limiti e dei suoi errori, il problema non è solo né soprattutto Veltroni. Il problema è il Partito democratico, nato male e cresciuto peggio, senza un’ intuizione dei tempi e del mondo prima ancora che senza identità, senza valori comuni e senza regole condivise. Veltroni ci ha creduto fin dalla svolta con cui nel 1989 Achille Occhetto pose fine al Pci; ha fatto quanto sapeva e poteva per dargliele. Adesso rimprovera ai suoi di non averlo sostenuto o di essersi preoccupati soprattutto di logorarlo per portare avanti l’ impresa.
Con tutto il rispetto di questo mondo, è lecito dubitare che ci creda più di tanto. Ed è chiaro. Walter era il leader naturale del Pd, nel bene e nel male, e non solo perché oltre tre milioni persone lo avevano votato nelle primarie: questa è stata la partita della sua vita. Per la gran parte dei maggiorenti del partito, invece, a cominciare da quelli che, pur senza apprezzarlo più di tanto, un paio d’ anni fa bussarono alla sua porta per indurlo a gettarsi subito nella mischia, vale un discorso molto diverso: il Pd lo hanno subìto più che sognato, e in ogni caso senza troppi entusiasmi e con molte riserve.
In realtà, anticipando una ritirata che tanti avrebbero voluto rinviare all’ indomani delle elezioni europee, Veltroni ha caricato questi stati maggiori di una pesantissima responsabilità politica. Come a dire: “Non ci sono più io a fungere da parafulmine, adesso tocca a voi dire se, e come, e con quale leadership, pensate di restare insieme per proseguire in questa avventura. Altrimenti, trovate il coraggio di proclamare che considerate ormai impossibile convivere sotto lo stesso tetto. Separatevi, sempre che sia ancora possibile, magari non proprio consensualmente, ma almeno senza scannarvi”.
Il rischio è alto, gli effetti sarebbero devastanti. Innanzitutto verrebbe meno in questo Paese, e chissà per quanto tempo, qualcosa che somigli a una sinistra, a un centrosinistra, a un’ opposizione democratica. Non sapremmo dire se questo sia esattamente il pensiero di Veltroni, ma questo è il messaggio che le sue dimissioni consegnano al Pd o a quel che ne resta.