Quella di oggi, diciamocelo con orgoglio, è la prima grande manifestazione di massa del riformismo italiano, finalmente unito. E lo è perché il Partito Democratico è il più grande partito riformista che la storia d’Italia abbia mai conosciuto.
Un italiano su tre si riconosce, crede nel disegno di un riformismo moderno. E’ un fatto inedito nella lunga vicenda nazionale. E oggi, in questo luogo splendido e immenso, siamo qui, in tanti, perché vogliamo bene all’Italia, perché amiamo il nostro Paese.
Con lo stesso amore, il 14 ottobre di un anno fa, il Partito Democratico nasceva da un grande evento di popolo.
L’Italia è un Paese migliore della destra che lo governa in questo momento. Migliore della destra che nel tempo recente lo ha già governato, anche se qualcuno troppo spesso finge di dimenticarlo, per sette lunghi e improduttivi anni.
L’Italia è un grande Paese democratico, è un Paese che ama la democrazia.
Perché l’Italia non dimentica, non potrà mai dimenticare quanti hanno sofferto, quanti hanno dato la vita per la sua libertà.
Lunedì scorso ci ha lasciati un grande amico, un padre della Repubblica, un maestro di vita per tutti noi. Aveva venticinque anni, Vittorio Foa, quando fu condannato e messo in galera: perché era antifascista, perché pensava diversamente da chi era al potere.
E per chi crede che fino ad un certo punto ci sia stato un fascismo in fondo non troppo cattivo, va ricordato che era il 1935. Non era ancora arrivata la vergogna delle leggi razziali. Ma il regime aveva già fatto in tempo a sopprimere la libertà di stampa e quella di associazione, a chiudere partiti e sindacati, a calpestare il Parlamento e a incarcerare, mandare in esilio o uccidere chi non si piegava alla dittatura: Don Minzoni, Giacomo Matteotti, Piero Gobetti. E due anni dopo la stessa sorte sarebbe stara di Carlo e Nello Rosselli e di Antonio Gramsci.
L’Italia, signor Presidente del Consiglio, è un Paese antifascista.
A chi le chiedeva se anche lei potesse definirsi così, “antifascista”, lei ha risposto con fastidio che non ha tempo da perdere, che ha cose più importanti di cui occuparsi, rispetto all’antifascismo e alla Resistenza.
Il presidente Sarkozy non avrebbe risposto così, non avrebbe detto questo della Resistenza animata dal generale De Gaulle, non avrebbe messo in dubbio che ogni francese è figlio orgoglioso della Parigi liberata dai nazisti.
E né Barack Obama, né John McCain risponderebbero con un’alzata di spalle ad una domanda sulla decisione del presidente Roosevelt di mandare a combattere e a morire migliaia di ragazzi americani. Quei ragazzi americani che sono morti per noi, per restituirci la libertà e la democrazia.
Nessuno avrebbe risposto come il nostro Presidente del Consiglio, perché non c’è nulla di più importante, per un grande Paese, della sua memoria storica. Un Paese senza memoria è un Paese senza identità. E chi non ha identità non ha futuro. E l’Italia ha bisogno di futuro.
Coltivare la memoria dell’antifascismo non è solo un atto di riconoscenza. Come ci ha ricordato un altro grande italiano, un uomo mite e rigoroso come Leopoldo Elia, se la democrazia viene coltivata e vissuta ogni giorno, si espande e cresce. Se viene mortificata e offesa, deperisce e può anche morire.
In tutti i Paesi del mondo ci sono i governi. Ma solo in quelli democratici c’è l’opposizione.
Coltivare la democrazia, farla vivere e crescere ogni giorno, significa rispettare l’opposizione, riconoscere la sua funzione democratica: nelle aule del Parlamento, come nelle piazze del Paese.
Se noi non svolgessimo fino in fondo il nostro ruolo all’opposizione, se non facessimo coesistere la durezza della denuncia e il coraggio della proposta, se non lo facessimo, tradiremmo il nostro mandato. E per colpa nostra, una colpa che sarebbe imperdonabile, la democrazia italiana diventerebbe più debole.
E’ indice di una mentalità sottilmente e pericolosamente illiberale, pensare che in una democrazia non bisogna disturbare il manovratore e che tutto ciò che limita, regola, condiziona il suo potere è solo un fattore di disturbo.
E’ un disturbo il Parlamento, perché vorrebbe e dovrebbe discutere le proposte di legge o i decreti del governo, prima di approvarli.
E’ un disturbo la magistratura, perché esercita un controllo di legalità che non può e non deve risparmiare chi governa la cosa pubblica in nome e per conto della collettività.
E’ un disturbo la Corte costituzionale, perché deve verificare la costituzionalità dei provvedimenti voluti dal governo e approvati dalla maggioranza in parlamento.
E’ un disturbo l’opposizione. Perché spezza l’incantesimo del plebiscitario consenso al governo. Perché dimostra che c’è un altro modo di pensare, che potrebbe domani diventare maggioritario. Perché vuole, come noi vogliamo, una grande innovazione istituzionale, il dimezzamento del numero dei parlamentari, una sola Camera con funzioni legislative, una legge elettorale che restituisca lo scettro ai cittadini. A cominciare dalla battaglia parlamentare che faremo nei prossimi giorni per mantenere il voto di preferenza alle prossime europee.
Una democrazia che decide, decide velocemente, decide dentro i principi della Costituzione, non con pericolose concentrazioni del potere. Una democrazia più moderna, alla quale abbiamo contribuito con le coraggiose decisioni dei mesi scorsi.
Noi oggi interpretiamo la nostra funzione in un modo che è perfettamente coerente con quanto dicemmo già al Lingotto, affermando che il PD, svincolato finalmente dai vecchi ideologismi, sarebbe stato “libero dall’obbligo di essere, di volta in volta, moderato o estremista per legittimare o cancellare la propria storia”.
Questo siamo: un partito libero, che non teme né di apparire moderato agli occhi di alcuni, né di sembrare estremista agli occhi di altri. Perché null’altro è che un grande partito riformista.
Un grande partito riformista, che fa dell’opposizione, un’opposizione di popolo, il modo per incidere oggi sulla realtà del Paese e per essere domani, strette le alleanze che le idee e i programmi vorranno, nuova maggioranza e nuovo governo per l’Italia.
Il PD avrà sempre, anche all’opposizione, una sola stella polare: gli interessi generali del Paese. Quel Paese che amiamo e il cui destino è la nostra ragione d’essere. Quel Paese che vogliamo unire, rifiutando l’odio e la contrapposizione ideologica.
Questa manifestazione è un grande momento di democrazia, sereno e pacifico.
E guai, davvero guai, a chi pensa di ridurre solo minimamente la libertà di avanzare critiche, la libertà di dissentire, la libertà di protestare civilmente contro decisioni e scelte che non condivide.
La democrazia non è un consiglio d’amministrazione. La minaccia irresponsabile e pericolosa di intervenire “attraverso le forze dell’ordine” dentro quei templi del sapere, della conoscenza e del dialogo che sono le Università, è stata qualcosa di abnorme e di mai visto prima. Puntuale, ancora una volta, è poi arrivata la smentita del Presidente del Consiglio. “Sono i giornali che come al solito travisano la realtà”, ha detto da Pechino.
Ora: cambiando il fuso orario si può anche cambiare idea, e in questo caso è un bene che ciò sia avvenuto. C’è però qualcosa su cui vale la pena riflettere. Perché un’alta carica istituzionale si può permettere sistematicamente di negare ciò che è evidente, ciò che per giorni le televisioni hanno ritrasmesso sbugiardando l’ennesima smentita? Perché il Presidente del Consiglio si sente autorizzato, nel pieno della tempesta finanziaria che stiamo vivendo, ad invitare i cittadini a comprare le azioni di questa o quella azienda? Perché può arrivare ad annunciare una decisione non presa come quella della chiusura dei mercati, facendosi smentire persino dalla Casa Bianca? Se l’avessero fatto Gordon Brown o Angela Merkel sarebbe successa una catastrofe. Siccome nel mondo sanno chi è, non è successo niente.
Ma perché coltiva questa impunità delle parole? Questa strategia dell’inganno permanente nei confronti dei cittadini? La presunzione che si possa promettere di tagliare le tasse che poi non si tagliano, di fare delle mirabolanti opere infrastrutturali che poi non vengono nemmeno progettate?
E’ l’idea del potere che non è tenuto a rispondere dei suoi comportamenti. E’ un’idea del potere inaccettabile. E’ la confusione tra governare e prendere il potere.
Contro questi rischi l’opinione pubblica, la cultura, la coscienza critica del Paese, l’antico amore degli italiani per una democrazia viva e piena, devono farsi sentire.
Voglio essere chiaro: noi non pensiamo che questo governo sia la causa di tutti i mali. Non saremo noi, a differenza di chi ci ha preceduto nel ruolo di opposizione, a gridare al regime.
Il problema è che il governo Berlusconi è totalmente inadeguato a fronteggiare la gravissima crisi che stiamo vivendo. E lo è per una ragione semplice: perché non ha nel cuore l’Italia che produce e che lavora, l’Italia che soffre. E’ un governo che si occupa di rassicurare i potenti di questo Paese, piuttosto che di combattere la drammatica situazione di imprese e lavoratori.
L’Italia può essere altro. L’Italia “è” altro.
E’ però vero che la fotografia dell’Italia attuale sta sbiadendo, ha quasi del tutto perso i colori, e la ricchezza delle sfumature, della modernità. I volti degli italiani appaiono sgranati e in bianco e nero. Come le vecchie immagini di una volta, perché l’immobilismo che già ieri ci condannava ad una crescita stentata rischia oggi, dentro una crisi economica di questa gravità, di farci tornare drammaticamente indietro.
Tornano indietro gli artigiani, gli operai. C’è stato un tempo in cui la fatica, i sacrifici e il talento, la specializzazione, davano dignità al lavoro e permettevano anche di metter su un laboratorio in proprio, e poi magari una piccola fabbrica. L’ascensore sociale funzionava, le condizioni di vita miglioravano. E comunque c’era la speranza che questo potesse accadere.
Oggi come vive un operaio che fatica tutto il giorno, e che troppo spesso in questo Paese sul lavoro rischia la vita, per 1.200 euro al mese? Che speranza può avere di poter star meglio, se deve invece preoccuparsi di essere messo in cassa integrazione, di arrivare in fabbrica una mattina e di leggere nella bacheca di servizio che fra sei mesi si chiude perché la produzione si ferma?
Tornano indietro le aziende, rischiano di tornare indietro i piccoli e medi imprenditori. Quelli che sanno mettere a punto nuove tecniche e creare nuovi prodotti, e che così hanno fatto crescere il Paese.
E’ gente onesta, che esce di casa che è ancora buio e torna a casa che è già notte, e fatica a dormire per la paura di non farcela e di dover chiudere: perché l’affitto aumenta a rotta di collo, le bollette paiono impazzite, la burocrazia è soffocante, la pressione fiscale opprimente. Sognavano di crescere per poter competere meglio, ma devono fare i conti con una realtà opposta: difficoltà ad avere finanziamenti dalle banche, che anzi chiedono di rientrare rapidamente dal debito, ed esportazioni che calano perché i clienti americani, tedeschi e inglesi sono impegnati a ridurre al massimo i consumi.
Qualche giorno fa, ad una azienda metalmeccanica del bresciano che ha cinquanta dipendenti ed è attiva da mezzo secolo, è stato chiesto di rientrare subito del fido e intanto hanno bloccato le carte di credito. “E’ una cosa umiliante”, ha detto il titolare. Ecco uno degli effetti di questa crisi: non conta la storia e la serietà di un’impresa, si guardano solo i numeri e i conti. Quelli della banca, non quelli dell’azienda.
E tornano indietro, non possono proprio a guardare avanti, i giovani, i nostri ragazzi. Su un muro di Milano qualcuno ha scritto: non c’è più il futuro di una volta. E’ la cosa più grave. Ieri a vent’anni e a trenta si raccoglievano i frutti dello studio o già si lavorava, e comunque si pensava al domani convinti che sarebbe stato migliore rispetto alla vita vissuta dai dei propri genitori.
Oggi i giovani italiani sono prigionieri della gabbia del precariato. Sono storie umilianti, e sono tantissime. La risposta ad un annuncio su Internet e l’invio di un curriculum, le cuffie in testa e il microfono per rispondere alle telefonate, i 1.200 euro lordi promessi dai selezionatori che diventano 800 e cioè 640 netti considerando i giorni effettivi di lavoro.
Quattro euro l’ora. Una vita precaria e i sogni mortificati per quattro euro l’ora. Ma si accetta, perché con il contratto a scadenza si è sotto ricatto. E si accetta.
E quella foto dell’Italia è in bianco e nero, purtroppo, anche a simboleggiare gli opposti, anche a dire dell’estrema ricchezza e dell’estrema povertà che dividono in due un paese ingiusto.
Non siamo solo noi, non è la cattiva propaganda dell’opposizione ad affermarlo, lo ha detto la Banca d’Italia, lo dice l’Ocse: la nostra è una delle società più diseguali dell’Occidente, siamo uno dei paesi nei quali la forbice tra chi ha tanto e chi ha poco o niente si è fatta più larga.
L’Italia ha urgente bisogno di crescere e per questo ci vuole, lo diciamo da mesi, un grande patto tra i produttori.
Siamo nel pieno della terribile, drammatica crisi finanziaria internazionale, che sta producendo una grave recessione mondiale e che si è abbattuta anche sul nostro Paese. Una crisi che richiederebbe, da parte di chi governa, senso di responsabilità e moderazione. Parole sconosciute a Berlusconi.
La crisi non va certo spiegata agli operai, alle imprese, ai ragazzi che cercano o perdono un lavoro. Lo sanno bene, lo sapete bene, lo vivete ogni giorno sulla vostra pelle. Lo sanno i pensionati, che prendono ogni mese la stessa pensione e intanto pagano di più per il pane, per la pasta, per le bollette della luce e del gas. Lo sanno le famiglie italiane, che faticano ad arrivare alla fine del mese. Lo sanno i sette milioni e mezzo di persone che vivono poco al di sopra della soglia di povertà, 500-600 euro al mese, vicinissimi a quegli altri sette milioni e mezzo che già stanno sotto. Fanno 15 milioni in totale. Non esagera, la Caritas Italiana, quando lancia l’allarme povertà.
C’è la crisi. Ed è vero che ci arriva dagli Stati Uniti. Ma nessuno può farne un alibi o una scusa. Soprattutto non può farlo, non può chiamarsi fuori, una destra che per anni ha diffuso a piene mani tre tossine, culturali e politiche.
La prima è un’idea monca della libertà, quella che considera ogni regola come un inciampo, che è figlia dell’ideologia del liberismo selvaggio e dell’individualismo sfrenato. E la disinvoltura con cui si fa una bella capriola e si diventa all’improvviso statalisti nasce dal fatto che l’unico vero sistema che piace alla destra è quello nel quale sia il mercato che lo Stato sono al servizio degli interessi dei più forti.
La seconda tossina è la freddezza, lo scetticismo, l’ostilità perfino nei riguardi dell’Europa. Ed è ovvio: l’Europa è coesione sociale e crescita economica insieme, è un orizzonte che chiama a muoversi in un sistema di regole e responsabilità comuni.
La terza tossina è il primato della finanza e di quella più creativa, più disinvolta e più cinica possibile, nei riguardi del lavoro e della produzione di beni e servizi. Vi farò tutti ricchi, perché il denaro da solo moltiplicherà il denaro, tutti avrete il vostro albero delle monete d’oro nel campo dei miracoli. L’impegno, la fatica, lo studio, la pazienza e la tenacia non servono più, sono avanzi del passato: tutto è facile, tutto è possibile, perché tutto è lecito.
La crisi, ha detto un grande economista come Paul Samuelson, “è figlia di un insieme diabolico di avidità, indebitamento, speculazione, laissez-faire, e soprattutto un’infinita incoscienza”.
C’è il ritratto della destra, dietro queste parole. Anche della destra italiana di questi ultimi quindici anni.
L’intervento dello Stato è “un imperativo categorico”, ha detto Berlusconi fulminato sulla via di Damasco. Ma sicuramente un giorno arriverà una smentita anche di questa frase. Come quando, poche ore dopo averla fatta, ha corretto quell’affermazione destinata comunque a rimanere negli annali per la sua totale irrealtà: “la crisi non avrà effetti sull’economia reale”.
E’ invece proprio l’economia reale l’emergenza vera di queste ore. Cosa ha fatto il Presidente del Consiglio per difendere le piccole e medie imprese o il potere d’acquisto dei salari e degli stipendi degli italiani? Nulla, assolutamente nulla.
Cosa ha fatto, cosa sta facendo il governo per le famiglie? Ha tagliato del 32 per cento il Fondo a loro destinato, e lo ha fatto per coprire una parte dell’abolizione dell’Ici sulle abitazioni dei più ricchi. Così, come ha denunciato l’Associazione famiglie numerose, c’è un “signor Rossi” milionario, che ha 500 mila euro di reddito annuo, diverse case di proprietà e non ha figli, che non paga più l’Ici perché un “signor Rossi” che fa l’operaio, che ha 25 mila euro di reddito annuo e vive in una casa in affitto con moglie e quattro figli a carico, non riceve più i 330 euro che prima gli arrivavano dal Fondo per le famiglie.
Insomma, dinanzi a una crisi che sta impoverendo ancora di più le famiglie italiane, il governo cosa fa? Spende le poche, preziose risorse per i più ricchi. E questi costosi regali li pagano tutti i contribuenti, perché hanno meno servizi, perché pagano più tasse e perché ricevono meno sostegni. Li pagano i Comuni, cuore del nostro Paese, costretti per questo a scelte socialmente dolorose. Li pagano gli italiani all’estero, anche loro cuore del Paese, anche loro colpiti anche dalle scelte di questo governo.
Voglio dirlo chiaramente: il governo ha sbagliato tutte le previsioni economiche, il governo ha fatto una Finanziaria che immaginava una fase di crescita, il governo ha esplicitamente e drammaticamente sottovalutato le conseguenze durissime che la crisi sta avendo sulle famiglie e sulle imprese.
Si sono riuniti anche di notte per garantire sostegno alle banche, quelle banche che devono restare indipendenti dalla politica. Ora si riuniscano anche di notte per fare invece un grande piano per i cittadini, per combattere la recessione e l’impoverimento della società italiana.
Dalla crisi del ’29 si uscì con il New Deal. Ora nel nostro Paese è tempo di un Piano organico per la crescita e la lotta alla povertà e alla precarietà.
L’Italia è un Paese migliore della destra che lo governa.
Le misure per stabilizzare la crisi finanziaria, prese a livello europeo, sono giuste e necessarie. Ma non sono sufficienti. Ne servono altre, indispensabili: il sostegno con un fondo di garanzia alle micro e piccole imprese, un piano di investimenti in infrastrutture e soprattutto un intervento per aumentare i redditi da lavoro, i salari, gli stipendi, le pensioni degli italiani.
Abbiamo presentato proposte per sostenere l’economia reale. Se queste priorità saranno riconosciute noi faremo, come sempre, la nostra parte. La faremo, come ho detto, per l’Italia, non certo per Berlusconi.
Noi da questa piazza non insultiamo nessuno e non gridiamo al regime. La nostra sfida è chiara, ed è la stessa che lanciammo al Lingotto.
Non conservare quello che c’è. Non assegnare al riformismo il compito di difendere anche importanti conquiste del passato.
No, è il tempo della costruzione dell’Italia del nuovo secolo. E’ il tempo del coraggio riformista, non della pigrizia conservatrice.
Le nostre proposte sono sul tavolo. Noi chiediamo di ridurre, a partire dalla prossima tredicesima, il peso delle tasse sui lavoratori dipendenti e sui pensionati. Proponiamo di destinare a questa misura sei miliardi di euro, in un insieme di interventi che valgono lo 0,5 per cento del Pil.
E’ un intervento rilevante ma sostenibile per le nostre finanze pubbliche, risanate dall’azione di un uomo che quando governava pensava al Paese, e non a se stesso: Romano Prodi. E’ un intervento sostenibile, nel momento in cui si è introdotta una maggiore flessibilità dei parametri europei all’interno dei vincoli del Patto.
La spesa pubblica, in Italia, deve essere ridotta. Senza esitazioni. La nostra linea, però, è “spendere meno e spendere meglio”. Non “spendere meno” e basta, senza preoccuparsi di cosa ne sarà delle scuole, degli ospedali, della sicurezza dei cittadini.
Abbiamo sempre detto “pagare meno, pagare tutti”. E invece ora di pagare meno non c’è traccia e la lotta all’evasione fiscale è scomparsa dall’orizzonte. Il governo sta riproponendo la vecchia ricetta: aliquote alte, pochi controlli, evada chi può. Complimenti: è la strada maestra per andare tutti a fondo.
E vorrei porre qui la domanda che si stanno facendo gli imprenditori e tutti gli italiani: dov’è finita la promessa di ridurre le tasse? Di portare la pressione fiscale sotto il 40 per cento?
La verità è che le tasse le stanno aumentando Voglio ripeterlo: le tasse stanno aumentando.
E questo proprio in una fase di recessione, quando si dovrebbe consentire a chi ha redditi medi e bassi di poter aumentare i propri consumi.
E poi: abbiamo sempre detto che la pubblica amministrazione deve essere riformata. Dunque va bene la lotta ai veri fannulloni. Chi lavora nel settore pubblico, a cominciare dai dirigenti, deve metterci il doppio e non la metà dell’impegno di chi lavora nel settore privato.
Ma la pubblica amministrazione è piena anche di persone straordinarie, che mettono al servizio della collettività sapere e competenza, in cambio di un reddito col quale faticano a vivere dignitosamente. Penso agli infermieri e ai medici ospedalieri. Penso agli agenti delle forze di polizia, che rischiano la vita e devono chiedere l’anticipo sulla liquidazione per tirare avanti.
Penso alla scuola, alla ricerca, all’Università. Il governo ha fatto due errori. Il primo: le ha ridotte a voci da tagliare, dimenticando che sono un settore strategico per il futuro del Paese. Un settore da riformare, anche in profondità, ma per investirci maggiori e non minori risorse.
Stupisce lo stupore per la protesta che sta dilagando in tutta Italia. E’ una protesta giusta, perché consapevole, responsabile e assolutamente non violenta. Come sempre dovrà essere, respingendo il tentativo di radicalizzare lo scontro portato avanti dal governo. E’ un movimento senza bandiere né di partito, né di sindacato. Una grande prova di autonomia della società civile. Le maestre insieme alle mamme, gli studenti insieme ai rettori. Questo movimento ama la scuola e la vuole cambiare, tanto che nelle piazze ci va anche per fare lezioni all’aperto di fisica o di filosofia.
Il governo invece sta togliendo l’aria all’Università italiana, sta impedendo l’ingresso di nuove leve di ricercatori e docenti all’interno degli atenei, sta togliendo ogni prospettiva di poter continuare a lavorare nel nostro Paese a giovani scienziati che hanno fin qui fatto partecipare l’Italia a progetti come quelli del Cern di Ginevra o hanno garantito il monitoraggio di vulcani e terremoti in un Paese come il nostro. Giovani scienziati che si sono visti bloccare l’assunzione dal governo Berlusconi del 2002 e che si vedono arrivare il licenziamento dal governo Berlusconi del 2008.
“Prenda nota, signor ministro Giulio Tremonti – non sono io a dirlo, ma è uno storico come Franco Cardini dalle colonne del “Secolo d’Italia” – ritirare l’appoggio alle Università è un modo di rubare ai poveri per dare ai ricchi. Un modo come infiniti altri. Ma è l’esatto contrario di quel che avrebbe voluto il ‘suo’ Robin Hood”.
Il secondo errore è forse ancora più grave. Avete camuffato i tagli sotto le mentite spoglie di una “riformetta” che ha mortificato la dignità culturale e professionale dei docenti, la partecipazione dei genitori e degli studenti, la natura di comunità educante della scuola.
Voglio essere chiaro: ogni posizione conservatrice sulla scuola e l’Università è sbagliata. Abbiamo bisogno della scuola dell’autonomia e del merito. Di una scuola che abbia fiducia nella capacità di scelta dei ragazzi. Di una scuola guidata da un progetto educativo moderno e capace di promuovere opportunità sociali e merito, in un contesto di permanente, indipendente, valutazione di qualità.
I conservatori sono quelli che si preoccupano di sistemare piccoli particolari, come il grembiule e il ripristino dei voti. C’è bisogno invece di una radicale riforma.
E voglio dire che se c’è una materia sulla quale il Paese dovrebbe proiettare se stesso oltre le divisioni, è proprio una scelta di fondo della scuola e dell’Università. Non si può ad ogni cambio di ministro stravolgere la vita di milioni di famiglie, di ragazzi, maestri e professori.
E’ la sfida dell’innovazione della scuola, quella che ci interessa.
La scuola elementare italiana, una delle migliori del mondo, è il frutto di decenni di elaborazione pedagogica, teorica e sul campo. Che cultura, che pensiero, che innovazione c’è dietro il ritorno al maestro unico o all’abolizione per via di fatto del tempo pieno?
E davvero qualcuno pensa che il fenomeno del bullismo si possa risolvere con il voto in condotta? No. Non è così semplice, non è così banale. Dietro questi atteggiamenti c’è molto di più. Dietro il fatto che un bambino su cinque comincia a bere tra gli 11 e i 15 anni c’è davvero un vuoto più grande. C’è il degrado e sociale e il disagio familiare. C’è l’annoiarsi di fronte alla vita di chi forse è spinto a conoscere il prezzo ma certo non il valore delle cose.
Quel vuoto a noi spaventa. Per voi è indifferente. Perché vi è congeniale. L’avete alimentato con la vostra cultura dell’individualismo e dell’egoismo. Con il vostro fastidio per ogni regola morale. Con la vostra idea che contano non lo studio e il lavoro, ma solo il successo facile. Quello che si raggiunge anche senza saper far niente, basta apparire in televisione. Quello che si può ottenere in ogni modo, anche prendendo le scorciatoie e passando sopra gli altri.
Uno scrittore, che di mestiere fa anche il professore, ha raccontato così i pensieri di una sua studentessa, di una ragazza come tante della sua generazione: “Professore, ha presente il fascio di luce che d’improvviso avvolge l’ospite d’onore e lo separa dal buio? Quella chiazza bianca o gialla sul palcoscenico? Mi sono accorta – dice questa ragazza – che è piccola, un cerchio minimo. Tutti non ci possiamo entrare, e neanche parecchi. Lì c’è posto per pochissimi. Per gli altri c’è il buio, il niente, al massimo un posto in platea per applaudire chi ce l’ha fatta e crepare d’invidia. A me non piace stare da una parte ad applaudire agli altri. Oggi a nessuno piace. Ma non mi va nemmeno di uscire dal teatro e mettermi a battere chiodi o sudare per due lire come mio padre e mia madre. Io quella luce la voglio. Io li capisco quelli che bruciano le macchine a Parigi. Loro la luce se la fanno da soli, e il mondo li guarda, arrivano le telecamere e il buio non c’è più, non c’è più questo schifo di vita”.
Questa cultura l’ha creata la destra. L’avete costruita voi. Non vi interessa la scuola perché la vostra scuola è la televisione. E la vostra diseducazione civile degli italiani rimbalza fin dentro le scuole.
Fa rabbrividire la mozione della Lega sulle classi differenziate per i bambini stranieri. “Famiglia cristiana” l’ha definita “la prima mozione razziale approvata dal Parlamento italiano”.
Che nella scuola dell’obbligo ci siano classi separate o test d’ammissione per distinguere un bambino dall’altro è un danno per tutti. E’ un danno per i bambini italiani, che considereranno quei loro amici diversi da loro, introiettando un concetto foriero di catastrofi. E’ un danno drammatico per i bambini immigrati, che si sentiranno messi ai margini e respinti, e coltiveranno un senso di separatezza che potrà essere molto rischioso in primo luogo per la sicurezza della nostra società.
Quella mozione offende i bambini, umilia la scuola e il Parlamento. La questione dell’insegnamento dell’italiano ai bambini stranieri è una questione reale, che da anni la scuola elementare affronta con successo e che dovrà ancora di più saper affrontare, attraverso lo sviluppo dei corsi integrativi e non con la segregazione etnica.
Si chiama interculturalità. Ed è un altro esempio di come l’Italia sia migliore, molto migliore della destra che la governa.
E’ con l’Italia, allora, che dovete discutere e ragionare. Con la scuola e l’università, innanzitutto. E poi in Parlamento: aprendo quello spazio di confronto auspicato con la consueta saggezza dal Presidente Napolitano, cercando soluzioni condivise e perciò stesso durature, perché sottratte al conflitto politico immediato.
Noi vi facciamo una proposta: il Governo ritiri o sospenda il decreto attualmente in discussione in Parlamento, modifichi con la Legge Finanziaria le scelte di bilancio fatte col decreto e avvii subito un confronto con tutti i soggetti interessati, giovani studenti, famiglie, docenti. Fissando un tempo al termine del quale è legittimo che le decisioni siano prese.
E’ il tempo di dirsi chiaramente una cosa, anche autocriticamente: nella scuola e nell’Università italiana forse si spende male, ma certo si spende poco. E’ il cuore del futuro del Paese, e per questo voglio prendere un impegno: quando governeremo l’Italia, noi dovremo fare quello che in questi giorni ha detto il Presidente francese. E cioè un grande sforzo per l’istruzione, per la formazione dei giovani. Sarkozy ha annunciato che all’Università sarà progressivamente destinato il 50 per cento in più di risorse. E’ una assoluta priorità, che non si può non vedere e che non ha colore politico. Quando noi governeremo, faremo altrettanto.
Se le cose cambiano, va cambiato anche il modo di guardarle. Alla parola “costi” si deve sostituire la parola “investire”.
Vale, questo, per la grande frontiera dell’ambiente, per il gigantesco problema del surriscaldamento globale, per la strada indispensabile delle energie rinnovabili.
Basta col pensare che tutto, quando si parla di questioni ambientali, sia solo un costo da sopportare. “Costi irragionevoli”, ha detto il Presidente del Consiglio di fronte ai nostri partner europei.
L’ambiente e l’economia non sono nemici tra loro. Il Pil può salire mentre contemporaneamente aumenta la tutela della natura e migliora la qualità della vita. Anzi: il Pil sale solo se al centro dello sviluppo c’è la sostenibilità, c’è la riconversione dell’economia.
Davvero non si capisce perché se la Germania è riuscita a creare, nel comparto delle fonti rinnovabili, duecentomila posti di lavoro negli ultimi dieci anni, da noi non possa avvenire qualcosa di simile. O perché non sia possibile seguire l’esempio della California, che puntando sull’efficienza energetica ne ha creati un milione e mezzo.
E ad ogni modo: solo se gli impegni internazionali assunti dall’Italia saranno confermati, come è dovere di un grande paese europeo, sarà giusto studiare momenti di flessibilità per venire incontro alle esigenze delle imprese nell’attuale situazione.
Il Partito Democratico vuole essere il grande partito dell’ecologismo moderno, fatto non di pregiudizi antiscientifici, ma dall’idea che sia proprio l’ambiente, scegliendo la via della “rottamazione” del petrolio, della fine della dipendenza dai combustibili fossili, degli investimenti sulle fonti rinnovabili, del potenziamento del trasporto pubblico, a poter garantire la nostra ricchezza di oggi e il domani dei nostri figli.
Alle mie spalle, la vedete, c’è una bellissima frase di di Vittorio Foa: “pensare agli altri, oltre che a se stessi, e pensare al futuro, oltre che al presente”.
Valgono, queste parole, per l’ambiente. E valgono per il drammatico corto circuito che nella nostra società si sta creando per colpa di un’equazione tanto ingiusta quanto sbagliata: più immigrazione uguale insicurezza, straniero uguale estraneo, diverso, “altro” da sé, minaccia per il proprio territorio, la propria casa, la propria incolumità. E quindi nemico da allontanare, da respingere, da cacciare.
Non ci stancheremo mai di ripeterlo e mai di fare di tutto per rendere concreto questo principio: la sicurezza è un diritto fondamentale di ogni cittadino. Chiunque lo colpisce va perseguito, qualunque sia la sua nazionalità. E basta con la vergogna di troppi delinquenti, non importa se italiani o stranieri, arrestati dalla polizia e poi scarcerati dopo pochi giorni, o di condannati che evitano il carcere grazie a una serie infinita di premi e benefici.
Però quell’equazione no, non si può fare. Non si può negare uno dei fondamenti della nostra civiltà: sono gli individui che commettono un crimine che vanno puniti. Mai i gruppi, mai le comunità etniche, sociali o religiose.
La madre del razzismo è la paura. Il problema è che ad alimentarla c’è anche l’uso politico dell’immigrazione. Il massimo dell’ipocrisia in chi, come il governo, dovrebbe avere l’onestà di dire che da quando ci sono loro gli sbarchi sono raddoppiati, le espulsioni sono ferme e si sta creando una nuova bolla di clandestinità.
La paura, ha detto bene Ilvo Diamanti, “paga”. In termini elettorali e di consenso, almeno nell’immediato. “Per contrastare il razzismo”, ha scritto ancora Diamanti, “si dovrebbe combattere la paura. Invece viene lasciata crescere in modo incontrollato. E molti, troppi, la coltivano, questa pianta dai frutti avvelenati che cresce nel giardino di casa nostra”.
Molti, troppi episodi si sono verificati negli ultimi mesi, nelle ultime settimane. Di quasi tutti si è detto “il razzismo non c’entra”. Ma non è razzismo l’assassinio di Abdoul, ucciso per una scatola di biscotti al grido di “sporco negro”? Non ci sono l’ignoranza, l’estraneità e l’ostilità verso “l’altro” dietro l’aggressione di un ragazzo cinese alla fermata di un autobus? Non dobbiamo pensare che ci sia razzismo dietro il fermo violento da parte dei vigili e il pestaggio di Emanuel? Dietro quel negargli persino il cognome?
E c’è un episodio che mi ha colpito particolarmente. In una scuola di una provincia italiana i bambini avevano disegnato, insieme alle loro maestre, delle sagome da mettere vicino alle strisce pedonali per dire agli automobilisti di rallentare. Queste sagome ritraevano loro. Erano bambini e bambine. Erano di colori diversi. Qualcuno deve aver pensato che c’era qualcosa di sbagliato nel fatto che ci fossero ritratti di bambini neri e di bambini bianchi insieme, e ha pensato di andare, di notte, a sbiancare con la vernice le sagome scure. Razzismo strisciante, vigliaccheria e pretesa di insegnare la propria aberrante idea di ciò che è giusto: il peggio del peggio riunito in un solo gesto.
Ecco qualcosa di fronte al quale noi non siamo e non saremo mai indifferenti. Qualcosa che noi combattiamo e combatteremo sempre.
L’Italia non è non sarà mai un Paese razzista.
E domando: la libertà e la democrazia non sono diminuite e ferite quando si ripetono atti di odiosa e intollerabile omofobia, che allontanano le nostre possibilità di convivenza civile e allargano il discrimine che vive sulla propria pelle chi non gode di leggi di pari opportunità e non è adeguatamente tutelato contro i reati d’odio?
L’Italia è un paese migliore della destra che la governa. La sua storia racconta un paese migliore.
Un bravo giornalista lo ha detto bene. Nei decenni successivi alla guerra, i nostri dialetti erano lingue ben strutturate, che resistevano tenacemente alla penetrazione dell’italiano. Allora nessuna Lega pensò di differenziare i ragazzi. Nessun ministro italiano immaginò mai di separare i piemontesi dai calabresi, i lombardi dai siciliani, i veneti dagli abruzzesi. Eppure quella era un’Italia nettamente divisa in classi, piena non solo di differenze linguistiche ma di diseguaglianze sociali. Ma quell’Italia non fu mai razzista, non fu mai “differenziata”.
L’Italia non può diventare questo proprio oggi, nel tempo che vede incrociarsi culture, popoli e persone. Noi non permetteremo che accada. Noi continueremo a credere che alla paura e anche alla sua percezione va data risposta, e che insieme va data risposta a chi arriva qui, lavora onestamente, e chiede integrazione, chiede diritti civili, chiede di poter votare, a cominciare dalle amministrative.
L’Italia è un Paese migliore della destra che la governa.
Moltiplicano l’ingiustizia in un Paese ingiusto.
Scelgono l’immobilismo in un Paese fermo.
Alimentano l’odio in un Paese diviso.
Cavalcano la paura in un Paese spaventato.
Ma l’Italia, nonostante tutto, resta migliore.
Stanno facendo dell’Italia un deserto di valori e la chiamano sicurezza.
Stanno cercando di creare un pensiero unico e lo chiamano gradimento, consenso.
Stanno calpestando principi e regole della vita democratica e la chiamano decisione.
Ma l’Italia, nonostante tutto, resta migliore.
C’è l’Italia delle 250 mila persone che con una firma si sono strette attorno ad un ragazzo di ventotto anni che rischia ogni giorno la vita e che continua a combattere contro la camorra con le sole armi che possiede e vuole usare: la passione civile, il coraggio delle idee e la straordinaria forza della scrittura, che arriva lì dove la violenza e la stupidità di uomini che non valgono nulla non arriveranno mai.
A Roberto Saviano va il grazie di tutti noi che oggi siamo qui in questa piazza.
Lo stesso grazie va alle forze dell’ordine, ai magistrati, agli imprenditori coraggiosi e alle associazioni che ogni giorno contrastano l’illegalità, resistono alla sopraffazione, tengono viva la speranza. Ad ognuno di loro va il grazie di tutti gli italiani onesti e perbene, di tutti coloro che non si rassegnano a pensare che le cose continueranno ad andare così perché così è sempre stato e nulla può cambiare.
Un’altra Italia è possibile. L’Italia della legalità, e non della furbizia. L’Italia della responsabilità, e non dell’esclusivo interesse personale. L’Italia del merito, e non dei favori. L’Italia della solidarietà, e non dell’egoismo. L’Italia dell’innovazione, e non della conservazione.
Oggi da questo luogo meraviglioso noi vogliamo far arrivare agli italiani un messaggio di fiducia.
Le cose possono cambiare. Le cose cambieranno. Non c’è rassegnazione che non possa cedere il passo alla speranza. Non c’è paura che non possa essere vinta dalla consapevolezza di sé e dall’apertura agli altri. Non c’è buio dopo il quale non venga la luce.
E allora dell’Italia tornerà a vedersi tutto il meglio. La civiltà di un popolo che sa accogliere ed includere. La creatività e il talento di generazioni di donne e di uomini che hanno sempre cercato il nuovo. Il coraggio di chi ha traversato il mare, di chi ha lasciato la propria terra per lavorare e fare più ricco il Paese. La tenacia di chi ha rischiato per fare impresa e di chi si sacrifica per difendere legalità e sicurezza.
E’ la nostra meravigliosa Italia. Quella che è stata e quella che può essere. Quella che sarà con il nostro lavoro, il nostro coraggio, la nostra voglia di futuro.
Un’altra Italia è possibile. La faremo insieme.