Il prezzo dei prodotti ortofrutticoli compie un balzo del 200% nel percorso che va dal campo di raccolta alla tavola del consumatore finale.
Il dato emerge da uno studio della Banca d’Italia che punta il dito contro la struttura dei mercati all’ingrosso italiani: vecchi, frammentati, scarsamente informatizzati e con orari di apertura poco flessibili che ostacolano lo sviluppo della concorrenza.
“Nel corso degli ultimi tre anni – spiega la ricerca – con riferimento a un paniere di prodotti orticoli costruito in modo omogeneo, la differenza tra il prezzo alla produzione e quello all’ingrosso risulta in Italia superiore al 100%, contro un valore mediamente del 60% in Spagna e in Francia”.
L’analisi di Palazzo Koch mette in luce un dato preoccupante: “In questa fase per l’Italia – si legge nello studio – utilizzando i dati dell’istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare (Ismea), si osserva un incremento medio di prezzo superiore al 50%; nel complesso, dal produttore al consumatore, il ricarico totale del comparto e’ mediamente del 200%”.
E’ la struttura della filiera a determinare il prezzo ultimo: più essa è lunga, più caro sarà il bene acquistato dal consumatore finale.
L’indagine, che si avvale anche dei risultati di uno studio dell’Antitrust, sottolinea come il ricarico risulti inferiore all’80% “nel caso di filiere cortissime (passaggio diretto dal produttore al venditore)” ma “prossimo al 300% nei casi in cui siano presenti 3 o 4 intermediari oltre al produttore e al distributore finale”.
E dall’indagine emerge che la grande distribuzione italiana acquista direttamente dal produttore in meno di un quarto dei casi, ricorrendo invece a più di un intermediario per quasi il 40% degli acquisti, “a causa dell’elevata stagionalità e deperibilità dei prodotti o a fronte di una scarsa organizzazione della produzione agricola”.
I venditori ambulanti risultano invece la tipologia distributiva con la filiera di approvvigionamento più corta, “rappresentata in circa il 60% dei casi da un solo intermediario, coincidente di norma con il mercato all’ingrosso”.
Sotto accusa finisce anche la struttura dei mercato all’ingrosso italiano che “si caratterizza ancora per la presenza di una moltitudine di strutture di piccola dimensione. A fronte dei 19 mercati all’ingrosso esistenti in Francia e dei 23 in Spagna, in Italia sono presenti quasi 150 strutture”, il 90% delle quali ha “una dimensione pari a meno di un quinto di quella delle realtà minori in Francia e Spagna”. Inoltre in esse si svolge solo il 30% degli scambi, contro il 50 o più per cento di Spagna e Francia.
A ciò va aggiunto che “poco meno della metà delle strutture italiane risale agli anni sessanta e settanta e quasi un terzo e’ antecedente alla seconda guerra mondiale”.
Soprattutto al Sud, “il complesso dei mercati all’ingrosso si presenta insufficiente a trattare un’offerta agricola rilevante, ridistribuendola verso altri mercati di sbocco”.
Questo anche perché la sviluppo di piattaforme distributive interne al mercato è “iniziato in Italia in ritardo rispetto agli altri Paesi europei”.
Quasi sempre, poi, “manca un sistema informatico adeguato sia per la rilevazione dei prezzi sia per garantire la tracciabilità dei prodotti”, mentre l’ampliamento degli orari di apertura “che consente di accrescere il grado di concorrenza tra gli operatori, oltre a offrire un maggior servizio all’utenza”, ha trovato sinora “scarsa applicazione” soprattutto al Nord, dove i mercati sono aperti spesso solo la mattina. Fanno eccezione il mercato di Fondi e di Roma, aperti nell’arco di tutta la giornata.
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