La lettera che il Presidente del Consiglio ha inviato lunedì scorso al Presidente del Senato è uno spartiacque che rischia di segnare negativamente l’intera legislatura.
Con quella missiva, l’on. Berlusconi ha assunto la paternità politica di un emendamento al decreto sulla sicurezza che stravolge il senso del provvedimento all’esame del Senato, colpisce il ruolo di garanzia del Capo dello Stato, strappa la delicatissima tela del dialogo istituzionale con l’opposizione.
Siamo preoccupati, per questa svolta all’indietro. Siamo preoccupati per l’Italia, che rischia di perdere una nuova occasione per darsi un sistema politico maturo: una democrazia compiuta, nella quale si possa competere lealmente tra avversari, scontrarsi a viso aperto sui programmi di governo e allo stesso tempo convergere sui valori costituzionali e collaborare nella manutenzione e nella riforma delle istituzioni e delle regole democratiche, come avviene in tutti i grandi paesi occidentali.
Siamo preoccupati, ma non sorpresi. In tutti questi mesi il Partito Democratico ha cercato di portare l’Italia fuori dal passato. La proposta che quasi un anno fa abbiamo avanzato al centrodestra, di aprire una nuova stagione di confronto, per il bene dell’Italia, non era solo una mano tesa: era anche un guanto di sfida.
Abbiamo sfidato il centrodestra sul terreno della responsabilità nazionale, dell’innovazione politica e programmatica. Convinti che questo nostro Paese non può più permettersi di aspettare altro tempo, che gli italiani non possono più aspettare.
L’Italia è un Paese fermo. E’ un Paese che non cresce. E’ un Paese che dispone di straordinarie risorse, materiali e umane. Risorse però non sfruttate, e mortificate, da un vero e proprio blocco non solo politico-istituzionale, ma anche economico e sociale e perfino di genere e di generazione. Un blocco che lo imprigiona, lo attanaglia, fino quasi a soffocarlo.
La nostra società è, e si sente, più povera.
Sono e si sentono così milioni di famiglie, soprattutto quelle a reddito fisso, che di fatto contano in lire i loro stipendi e le loro pensioni e calcolano in euro il prezzo di quel che spendono per vivere, con sempre maggiori difficoltà a far quadrare tutto.
Si sentono così tutte quelle persone, giovani e meno giovani, che si ritrovano a collezionare un contratto dopo l’altro per poche centinaia di euro alla volta.
Sono più poveri gli operai, che si ritrovano con una busta paga sempre più leggera e rischiano di uscire dalla generale invisibilità solo quando sono vittime di uno dei troppi incidenti sul lavoro.
Da quindici anni, coalizioni politiche di segno diverso si alternano al governo dell’Italia, ma nessuna di esse è stata in grado di esprimere la capacità di decisione democratica necessaria ad aggredire in modo incisivo e durevole i problemi di fondo del nostro Paese.
Questa è la verità: l’Italia non dispone di un sistema istituzionale e politico all’altezza della gravità e della complessità dei suoi problemi. E se questo deficit di coesione politica e di decisione democratica non verrà rapidamente colmato, rischia una crisi di sistema, della quale da tempo si vedono molto più che le avvisaglie.
La stessa anomalia della destra italiana, quel suo affidarsi alla persona che detiene la massima concentrazione di potere privato del Paese, non è che l’altra faccia della debolezza dei poteri pubblici e della fragilità del sistema politico. Quasi che un sistema politico e istituzionale strutturalmente inadeguato a prendere le decisioni necessarie dovesse e potesse essere surrogato dall’investitura di un potere parallelo.
I risultati dei passati governi Berlusconi, così come l’infelice esordio di questa legislatura, ci dicono che la speranza che una parte larga e più volte maggioritaria del Paese ha riposto nella supplenza privata di poteri pubblici si è rivelata un’illusione: alla fine il potere privato, pure invocato per finalità pubbliche, finisce sempre per anteporre gli interessi particolari a quelli generali.
Come ha scritto uno sconsolato Luca Ricolfi, “Emendamento salva Rete 4, limiti alle intercettazioni e alla libertà di stampa, norme per fermare il processo Mills, ricusazione del magistrato che dovrebbe giudicare il premier, riproposizione del lodo Schifani, tutto indica che ci risiamo: Berlusconi avrà anche un’idea dell’Italia, ha sicuramente ragione in alcune critiche alla magistratura, ma quando si mette in movimento è del tutto incapace di separare l’interesse personale da quello del Paese”.
Per questo ci ha preoccupato e indignato, ma non sorpreso, lo strappo consumato dall’on. Berlusconi con l’emendamento sul decreto sicurezza.
L’occasione è perduta, forse definitivamente. Ma nessuno si illuda, tra i nostri avversari: noi non torneremo con loro nel passato. Noi continueremo a lavorare per la nuova stagione della democrazia italiana.
Proprio l’inadeguatezza del centrodestra apre davanti a noi una grande opportunità, che dobbiamo far maturare con pazienza, coerenza, tenacia. E’ proprio adesso che i nostri avversari hanno messo in mostra, ancora una volta, i loro limiti radicali, che noi non dobbiamo ricadere in vizi antichi e ripetere i vecchi errori: se lo facessimo, ci giocheremmo la possibilità di diventare maggioranza nel Paese.
Anche nella legislatura 2001-2006 il berlusconismo si rivelò un rimedio peggiore del male, un’aggravante alla crisi italiana. E lungo tutto l’arco del quinquennio, il centrodestra continuò a perdere vaste aree di consenso, che preferirono accamparsi nella terra di nessuno dell’astensionismo.
Il vecchio centrosinistra vinse in quegli anni quasi tutte le elezioni parziali. Ma non riuscì a smuovere e a spostare verso di sé gli elettori moderati che si erano rifugiati nell’astensione. E nel 2006, quei voti in grandissima parte tornarono lì da dove erano venuti. L’Unione rischiò così di perdere un’elezione che comunque non vinse.
Fu il connubio tra antiberlusconismo e massimalismo a rendere non credibile la nostra alternativa. Fondata, plausibile, convincente nella denuncia, ma inadeguata nella proposta, incapace di porsi, sia sul piano programmatico che su quello politico, come praticabile soluzione politica alla crisi italiana.
Noi non ripeteremo gli errori di quella stagione. Per la semplice ragione che oggi, finalmente, abbiamo il Partito democratico, la Casa comune dei riformisti, il grande partito che mancava al centrosinistra italiano e per il quale abbiamo lavorato, lottato, sperato, dalla nascita dell’Ulivo fino ad oggi.
All’indomani della sconfitta delle elezioni del 13 e 14 aprile, le motivazioni della quale costituiscono il filo conduttore di questa relazione, noi abbiamo messo in campo una opposizione coerente con la natura del Partito Democratico.
La nostra è l’opposizione di un grande partito riformista, che si candida non solo a governare il Paese, ma ad aprire un ciclo di grande innovazione istituzionale, politica e programmatica.
Per questo, la nostra è già e sarà sempre di più un’opposizione intransigente: contro il ritorno di una stagione di conflitti istituzionali, di leggi ad personam e di confusione tra gli interessi privati e la cosa pubblica. Al tempo stesso, sarà un’opposizione incalzante e propositiva sul terreno delle politiche che hanno a che fare con la concreta condizione di vita dei cittadini: sicurezza, potere d’acquisto, servizi sociali. Un’opposizione che gradualmente, senza arroganza, ma con crescente autorevolezza, riesca ad imporre la propria agenda in Parlamento e nel Paese.
Per questo abbiamo dato vita al “Governo-ombra”: uno strumento essenziale per un’opposizione che voglia qualificarsi per le sue proposte e affermarsi progressivamente come credibile alternativa di governo per il Paese. Una decisione, la nostra, che è stata accolta dall’opinione pubblica più avvertita come la conferma della volontà di procedere con determinazione lungo la via dell’innovazione del sistema politico e istituzionale.
Il governo Berlusconi è ancora nel pieno della fisiologica luna di miele col Paese, il periodo nel quale, come accade in ogni sistema democratico, anche chi non ha votato per il governo in carica può concedere fiducia al nuovo esecutivo, o quanto meno sospendere il giudizio, in attesa della prova dei fatti.
La prova dei fatti verrà in autunno. Sul terreno economico, innanzi tutto. Ne abbiamo già i primi segni.
Della manovra economica che il Governo ha presentato ieri, noi apprezziamo la conferma dell’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2011e l’equilibrio tra minori spese e maggiori entrate che sembra caratterizzarla.
Esprimiamo invece un giudizio severo per la mancanza di qualsiasi intervento sulla questione salariale e per la discutibile qualità delle misure adottate per la riduzione della spesa pubblica.
È davvero grave che proprio ora che le parti sociali muovono i primi passi verso una riforma del modello contrattuale che metta al centro la produttività e la sua equa remunerazione, proprio ora il Governo non dia luogo ad un intervento significativo di riduzione della pressione fiscale sui salari. Su tutti i salari – con l’aumento della detrazione IRPEF – e sulla quota di salario da contrattazione di secondo livello.
Non ci si può rispondere che si è deciso di intervenire sugli straordinari: non tutti i lavoratori fanno straordinari, e un intervento su questo solo aspetto non è in grado di spingere le parti sociali ad una nuova stagione di contrattazione, che distribuisca finalmente un po’ dei vantaggi da aumento di produttività a favore dei lavoratori.
Ecco dunque un primo elemento della nostra contromanovra: salari migliori e salto nelle capacità competitive del sistema, attraverso misure fiscali e riforma del modello contrattuale.
In secondo luogo, quale componente della spesa pubblica viene tagliata? Noi non discutiamo l’entità dell’intervento: il nostro programma elettorale, al quale intendiamo ispirare la nostra opposizione, prevedeva riduzioni della spesa corrente primaria della Pubblica Amministrazione, al netto della spesa sociale, anche più significative. All’interno della spesa corrente primaria, però, è soprattutto alle spese di organizzazione della Pubblica Amministrazione che noi guardiamo, per un’azione al tempo stesso di qualificazione e riduzione.
Nell’intervento del Governo, invece, leggiamo di tagli alla sanità e agli Enti Locali. Quanto alla finanza locale, proprio non si vuole uscire dalla logica dei tagli orizzontali, che accomunano buoni e cattivi, virtuosi e viziosi, a tutto danno dei primi e a tutto vantaggio dei secondi. Bisogna invece rovesciare logica e tempistica rispetto a quella adottata dal Governo. Prima il federalismo fiscale, fondato su standard di qualità, quantità e costi dei livelli essenziali dei servizi, poi la razionalizzazione dei trasferimenti.
Quanto a banche, assicurazioni e petrolieri, mi limiterò a qualche domanda: quanto vale, per questi soggetti, l’abolizione della class action? Quanto vale, l’evaporare della nostra proposta sulla commissione per massimo scoperto? Quanto vale il mantenimento di certi monopoli nel settore energetico? Quanto vale il rinnovo per legge delle concessioni autostradali? E quali sono i meccanismi che il governo intende mettere in atto per impedire che consumatori, risparmiatori e utenti vedano trasferire sui prezzi gli aggravi?
Liberalizzare, aprire i mercati chiusi, favorire l’accesso degli outsiders: ecco di cosa c’è bisogno.
Leggeremo la proposta del Governo sui servizi pubblici locali: se sarà figlia di una strategia di modernizzazione e apertura, capace al tempo stesso di favorire l’irrobustimento delle nostre imprese e l’apertura dei mercati, faremo la nostra parte. Se in passato le maggioranze di centrosinistra non hanno proceduto, in questo campo, non è certo stato per responsabilità dell’Ulivo e del PD.
Infine, gli interventi sui fondi europei per il Sud. Qui, se davvero il Governo intende procedere ad una severa opera di selezione dei progetti, per riprogrammare alla luce di poche priorità, definite con le istituzioni regionali e locali – a partire dai progetti sulla mobilità, sulla ricerca e sulla sicurezza – sappia che troverà nel PD un interlocutore attento e disponibile.
Ma il governo deve anche sapere che la sospensione dell’automaticità dei crediti d’imposta, il saccheggio delle risorse per le infrastrutture nel Sud a fini di copertura del decreto ICI, lo sperpero di 300 milioni nel prestito Alitalia, che non è più ponte verso una credibile soluzione (e dunque non è più nemmeno un prestito), hanno inferto un duro colpo alla sua credibilità in questo campo e ci rendono diffidenti sulla serietà delle sue intenzioni.
Non ci siamo, on. Berlusconi. Oggi siamo noi a dirlo, in autunno sarà una larga parte degli italiani. Quella che noi chiameremo a raccolta, per una azione di protesta e di proposta in tutto il Paese, che culminerà con una grande manifestazione nazionale.
Anche sul terreno, delicato e decisivo, della sicurezza dei cittadini, il governo appare prigioniero della sua stessa cattiva propaganda.
Noi abbiamo detto con nettezza, nei mesi scorsi, che la sicurezza è un bene primario, un diritto civile indisponibile, una condizione imprescindibile della democrazia.
Una delle “rotture”, delle innovazioni più grandi che rispetto al passato il Partito Democratico ha prodotto, è stata proprio questa: affermare che quello alla sicurezza è un diritto fondamentale, che chi governa ha il compito di fare ogni cosa per assicurarlo. Con la necessaria fermezza, anche espellendo dall’Italia chi si macchia di reati gravissimi e mostra segni di pericolosità sociale. Come peraltro ponendo fine alla vergogna di troppi delinquenti, non importa se italiani o stranieri, arrestati dalla polizia e poi scarcerati dopo pochi giorni, o di condannati che evitano il carcere grazia a un’infinità di premi e benefici.
Dire questo, far vivere concretamente questi principi in un pacchetto sulla sicurezza che a suo tempo stato è un grave errore non approvare, ci ha permesso se non di colmare un ritardo accumulatosi per troppo tempo, di rimetterci in sintonia con il Paese. Con gli italiani, che in nove su dieci ritengono che negli ultimi anni la criminalità sia complessivamente aumentata e che per il 50 per cento pensano che questo sia avvenuto nel proprio territorio di residenza, dove vivono e lavorano.
La percezione delle persone, si badi, non è qualcosa da sminuire o biasimare. E’ parte integrante del diritto a vivere sicuri e sereni, senza temere di andare a ritirare la pensione, senza dover star svegli con l’ansia di chi aspetta il ritorno a casa di sua figlia. La paura è un dato reale. Va compresa, e le vanno date risposte.
Come va data risposta a chi arriva qui, lavora onestamente, e chiede integrazione, chiede di aver riconosciuti diritti civili e politici, chiede di poter votare, a cominciare dalle amministrative.
Altra cosa, decisamente altra cosa, è fare un’equazione tanto ingiusta quanto gravemente sbagliata: più immigrazione uguale insicurezza, straniero uguale estraneo, diverso, “altro” da sé, minaccia per il proprio territorio, la propria casa, la propria incolumità. E quindi nemico da allontanare, da respingere, da cacciare.
Sia chiaro: gli individui che commettono un crimine vanno puniti, qualunque sia la loro nazionalità, la loro provenienza. Gli individui: mai i gruppi, le comunità etniche, sociali o religiose alle quali appartengono.
Non lo dice solo il nostro codice, e già basterebbe e avanzerebbe. E’ la nostra stessa civiltà a dire che chi pensa diversamente, chi nega questo fondamento, scivola inesorabilmente nella barbarie. E se come dicevamo la percezione di insicurezza e la paura vanno comprese, non altrettanto si può e si deve fare quando il confine viene oltrepassato.
E’ accaduto, quindi può accadere.
Una folla scatenata che si scaglia contro un campo nomadi incurante di anziani e bambini terrorizzati e in fuga è parte del problema, e anche grande. Non è certo una risposta.
Le ronde, la caccia al rom o all’immigrato, il mito aberrante del farsi giustizia da sé sono un problema, non sono certo la soluzione, nemmeno in minima parte.
Proposte politiche che minimizzano l’una cosa e che propongono apertamente l’altra, sono anch’esse parte del problema, non la possibilità di uscirne. Non il modo di contrastare un virus pericoloso, nocivo, socialmente e moralmente. Quello fatto di semplificazioni xenofobe, di voglia di veder dilagare un “pensiero unico” segnato da separazione, chiusura, ostilità. Quello che poi si manifesta in tante forme, a cominciare dal linguaggio, dagli epiteti razzisti, dalle espressioni vergognose di chi arriva a parlare di lager o di operazioni di “derattizzazione”.
E’ un problema chi soffia sul fuoco, chi alimenta le paure, chi innesca meccanismi che poi rischiano di scappare di mano, di sfuggire ad ogni controllo. Tutto per conquistare un consenso di tipo populista e antipolitico. Con un’enfasi che colpisce in modo particolare gli immigrati e che diventa facilmente sproporzione e poi ingiustizia, discriminazione, intolleranza. Con una attenzione, anche mediatica, che prende la realtà e invece di rappresentarla la distorce, la esaspera. Alcune cose, specie in alcuni momenti, sembrano essere osservate con il binocolo e ingrandite anche a distanza ravvicinata, altre vengono con troppa facilità allontanate dagli occhi e dalla coscienza.
Ha davvero ragione Claudio Magris quando dice: “Credo che i commercianti e gli industriali taglieggiati dalla camorra o dalla mafia scambierebbero volentieri il danno, l’intimidazione – non di rado la morte – che sono costretti a subire con i fastidi di chi abita non lontano da un campo nomadi. Non si sono viste squadre di cittadini indignati scagliarsi contro quartieri della camorra e non ho sentito parlare di ronde pronte a proteggere gli esercenti dai malavitosi che vengono a riscuotere il pizzo”.
E’ così. Troppo spesso, in questo nostro Paese, succede così. E fatemi dire che io non ho visto uomini politici della destra, né in campagna elettorale, né nei giorni scorsi quando sono tornato di nuovo a Casal di Principe e in Sicilia, spendere una parola – non dico a combattere in prima fila, ma spendere una sola parola – contro la camorra, contro la mafia, per respingere il loro appoggio, per sostenere concretamente i magistrati, le forze dell’ordine, gli industriali anti-racket, i ragazzi di “Libera” o quelli di Locri che giorno per giorno difendono, tutti assieme, il valore della legalità, della moralità che la vita pubblica deve avere. Perché è su questo che si regge una democrazia, è questo che contribuisce a tenere insieme la trama, il tessuto della società.
Non si governa un Paese, una comunità, coltivando l’egoismo sociale, calpestando e lasciando calpestare la legalità, riducendo le radici, l’identità, il territorio da quella ricchezza che sono ad una gabbia che restringe lo sguardo e mortifica le relazioni. Non è giusto, non serve al destino comune delle nostre società. E non serve nemmeno ai singoli individui, a coloro dei quali si dice di voler difendere prerogative e condizioni di vita.
Invece è questo che fa la destra, in tutto l’Occidente. Non si presenta più col volto dell’innovazione, della rottura con vecchi schemi mentali e consolidati assetti di potere, della scommessa sugli “outsider” contro gli “insider”, come seppero fare, pur con tutte le contraddizioni e producendo iniquità, la signora Thatcher e Ronald Reagan negli anni Ottanta del secolo scorso.
Oggi la destra ha smesso di innovare. Sembra scommettere piuttosto sulla paura che i grandi cambiamenti in atto stanno suscitando in tutti i settori sociali. E sembra voler promettere più protezione che innovazione.
Potremmo dire, in una parola, che la destra, venticinque anni dopo, è tornata conservatrice.
Non a torto, la destra ritiene che questo sia precisamente ciò che le nostre società oggi le chiedono. Angosciate come sono da un cambiamento che avanza in modo tumultuoso, ma del quale non si riesce a comprendere il senso, ad afferrare la direzione di marcia, a prevedere gli sviluppi, nemmeno ad intravedere la guida.
Pensiamo a questi ultimi vent’anni. Sono cambiati, e profondamente, gli equilibri politici. Nel 1989, con il crollo del Muro, finiva il tempo delle ideologie, tramontava l’assetto bipolare che per più di mezzo secolo aveva determinato i destini di popoli e paesi di ogni angolo del pianeta. Qualcuno, salutando i segni di una democrazia in complessiva espansione, perché era verso di essa che il mercato sembrava ineluttabilmente spingere, arrivava a preconizzare la “fine della Storia”.
Sarebbe bastato poco tempo a dimostrare che così non era. La cartina dell’Europa è stata ridisegnata, e con essa il suo ruolo. Con fasi alterne, e con non poche contraddizioni. Nel segno della pace si è riunificata la Germania, in quello della guerra e dell’odio etnico sono nati nuovi stati nei Balcani. L’allargamento a Est ha creato nuovi confini e assegnato nuovi possibili compiti all’Unione Europea. Nel frattempo, girato drammaticamente l’angolo del nuovo secolo, ci si accorge di quanto si siano incrinate le certezze sulla “naturale” crescita delle democrazie.
Larry Diamond, politologo della Stanford University, lo ha detto con chiarezza: a fianco della tanto dibattuta recessione economica americana ce n’è oggi un’altra, meno discussa ma assai più temibile, perché se si consolidasse sarebbe molto difficile invertire il senso di marcia e le conseguenze per l’intero pianeta sarebbero di non breve durata. L’ha definita “recessione democratica”, pensando soprattutto a quelle forme di “capitalismo autoritario” che con profili diversi ha i suoi esempi più grandi nella Cina e nella Russia. Realtà che si stanno incaricando di dimostrare che il mercato può esistere anche senza democrazia o in presenza di democrazie deboli.
Insomma, andiamo verso un mondo multipolare dove grandi potenze potranno non essere democratiche. E non solo: dove ogni grande democrazia deve trovare le energie per difendere, rafforzare e perfezionare se stessa. Non sono mai da sottovalutare i rischi che si addensano su una comunità, su una democrazia, quando lo Stato di diritto viene ferito e quando anche solo una piccola parte della libertà degli individui viene meno.
Una “recessione democratica”, dunque. E insieme, le grandi questioni legate al “Prometeo scatenato” di Giorgio Ruffolo, ad un sistema capitalistico che a fianco delle “condizioni prodigiose di prosperità” che ha saputo creare, e anzi spingendo proprio queste oltre ogni misura, si è avventurato in un percorso denso di “condizioni minacciose” per il futuro stesso dell’umanità.
La devastazione dell’ambiente, i cambiamenti climatici, l’emergenza acqua, le carestie, la dissipazione delle fonti energetiche primarie e la dipendenza del petrolio che potrebbe mandarci in tilt: tutto concorre a dirci che il mondo così non può reggere ancora per molto, che siamo già oltre il limite e che rischiamo di arrivare ad un punto di non ritorno.
E poi la dissipazione delle ricchezze reali con il peso smisurato assunto dalla finanza, il deterioramento delle relazioni sociali, un impoverimento generale delle risorse morali. A creare un mondo sempre più diseguale. Sempre più abitato da pochi vincitori e moltissimi perdenti. Con i frutti della crescita che non sono, evidentemente, distribuiti in modo equo.
Guardiamo sempre gli ultimi due decenni: se da una parte si è verificata una modesta riduzione dell’enorme divario che continua a separare i redditi medi dei paesi ricchi da quelli dei paesi poveri, dall’altra abbiamo assistito ad un accentuarsi delle diseguaglianze all’interno sia degli uni che degli altri.
E’ da vent’anni e più che in tutti i paesi industrializzati i salari e gli stipendi sono rimasti fermi o sono andati indietro, mentre i profitti e le retribuzioni degli alti dirigenti sono aumentati. E a questo spostamento di ricchezza, che ha già prodotto l’impoverimento di larghe fasce di popolazione all’interno dei singoli paesi, si sta aggiungendo ora una massiccia redistribuzione del reddito, con il trasferimento di grandi risorse dai consumatori di petrolio, metalli e grano a chi queste cose le produce.
La globalizzazione c’è, è un dato di fatto. Il punto è il suo governo. Perché è evidente che economia e mercati finanziari si sono più che globalizzati, e la politica, i suoi strumenti e le sue regole, no.
Un risultato è che i singoli individui sono sempre più consapevoli che a decidere il loro futuro saranno fenomeni che sfuggono totalmente al loro controllo e che però incidono assai concretamente sulla loro vita.
Gli squilibri tra Nord e Sud del mondo, gli scompensi demografici tra le diverse aree del pianeta, la fame dell’Africa e i conflitti dimenticati, i grandi movimenti migratori, non sono argomenti da leggere o da ascoltare in televisione, ma concreta realtà.
E così i mutamenti climatici, l’uso distorto delle risorse primarie e quello eccessivo delle fonti energetiche, una gravissima crisi alimentare che non bastano poche cifre a raccontare, con il prezzo del riso aumentato negli ultimi mesi del 75% e quello del grano del 120% nell’ultimo anno: non sono più temi lontani, ma hanno a che fare con l’aria che si respira, con la salute dei propri figli, con l’enorme rincaro della spesa per gli alimenti o per gli spostamenti di ogni giorno.
E ancora la crescita impetuosa dei mercati e degli scambi commerciali, e l’ingresso sulla scena mondiale di nuovi grandi protagonisti economici prima in forte ritardo: potranno essere fenomeni che interessano gli studiosi, ma certo riguardano ancora di più chi per questo perderà il posto di lavoro o dovrà vivere con il terrore che le voci di chiusura circolanti in fabbrica, ogni giorno più insistenti, si rivelino vere.
Non c’è da stupirsi che il nostro sia diventato il tempo dell’insicurezza e della paura. Una paura che oggi ha immediatamente a che fare, pressoché in tutto il mondo, con la politica. Quella di chi fatica a sintonizzarsi con essa e a darle risposta. Quella di chi non si pone il problema, o meglio lo risolve in un altro modo: usandola.
Ora: la paura è da sempre compagna di viaggio degli uomini e va considerata per quel che è, un sentimento umanissimo. Che le persone arrivino a farsene condizionare è quanto di più comprensibile. Altra cosa però è la politica, è l’uomo di governo, che non si pone il problema di superare la paura, di contrastare il suo dilagare contagioso, i guasti che così si producono all’interno di una comunità. Altra cosa ancora è chi pensa addirittura di trarre, da tutto ciò, un vantaggio.
Sulla base della paura non si governa una società. Men che meno si governano e si tengono insieme società aperte e complesse come le nostre.
Credo abbia ragione chi dice, come fa Paul Krugman, che non è stata e non è l’economia a determinare o almeno a condizionare la politica, quanto piuttosto il contrario. E’ la politica che con le sue decisioni può ampliare o ridurre il grado di disuguaglianza, rafforzare o indebolire la rete di protezione che è a disposizione di ognuno, aumentare o diminuire le effettive opportunità, avvicinare o meno le concrete condizioni di partenza.
E’ allora dalla politica che bisogna ripartire. Anche nel nostro tempo post-ideologico, che anzi permette una più aperta contrapposizione di idee e programmi, non è affatto indifferente quale segno ha la politica, se è della neo-destra o di un moderno centrosinistra.
La destra sceglie la chiave del populismo, cavalca le paure e solletica l’arbitrio personale, alza muri, invoca dazi e barriere. Preferisce fare facili promesse, rassicuranti forse nell’immediato, in grado di esorcizzare lì per lì la paura, ma non di sciogliere davvero i nodi che ne sono all’origine. Viene in mente la famosa nave di Kierkegaard: “è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani”.
Sembra la condizione in cui ci troviamo oggi. Non si può in effetti dire che la destra, nel mondo, sia in questo momento afasica. Parla, dà delle sue risposte alle insicurezze. Punta a rappresentare il disagio, anzi ad alimentarlo e ad amplificarlo. E che la cosa in quasi tutta Europa le stia riuscendo, emerge dal raffronto tra due fotografie, una scattata dieci anni fa, l’altra oggi. Dieci anni fa, dopo le vittorie di Prodi nel ’96, di Blair e Jospin nel ’97, di Schroeder nel ’98, il centrosinistra governava 13 dei 15 paesi dell’Unione Europea e 11 dei premier appartenevano alla famiglia socialista. Oggi, non contando le grandi coalizioni di Austria e Germania, al governo dei rispettivi paesi troviamo solo i socialisti spagnoli e quelli portoghesi. E i laburisti in Gran Bretagna, ovviamente, ma qui gli ultimi risultati del voto locale e tutti i sondaggi non inducono purtroppo all’ottimismo.
Questa è la situazione attuale. Una situazione che oggettivamente racconta delle difficoltà enormi in cui si trovano la sinistra e il centrosinistra in Europa e della grandezza della riflessione, oltre che dei compiti, che ci attendono immediatamente.
Però noi non dobbiamo mai dimenticarlo, e mai smettere di comportarci conseguentemente: la destra non fa altro se non dire quel che le persone si vogliono sentir dire, si limita ad annunciare il menu del giorno dopo. Questo può fare indubbiamente piacere, può dare sollievo. Ma alla lunga non conduce lontano, non dà senso all’agire, non dà prospettiva.
La globalizzazione attuale richiede di essere governata dai pubblici poteri, con un più efficace coordinamento internazionale, con un modello al tempo stesso multilaterale e multilivello. Una nuova idea di “governo mondiale”. E’ questa l’urgenza che il centrosinistra, le forze riformiste di tutto il mondo, si devono porre, assumendosi nuove e grandi responsabilità.
Ci sono enormi diseguaglianze, c’è una “insostenibilità sociale” figlia di uno sviluppo privo di limiti? E’ vero che il pendolo del potere economico si è spostato in questi anni dal lavoro al capitale, con l’uno a livelli record positivi e l’altro negativi? Bene: è tempo che il pendolo della politica torni su una posizione più favorevole al lavoro.
Si cominci riconoscendo giuste retribuzioni, salari più alti a chi ha visto sminuire il valore della propria attività e concretamente precipitare il proprio potere d’acquisto. E se c’è qualcuno che le coltiva, ci si tolga dalla testa due idee: quella di poter competere con chi si affaccia ora al mercato giocando al ribasso sul livello delle retribuzioni o dei diritti; quella di rinunciare o semplicemente di sminuire il ruolo delle organizzazioni dei lavoratori e degli altri corpi intermedi, che hanno migliorato la vita di milioni di persone e contribuito a rafforzare la democrazia estendendo e garantendo la sfera dei diritti politici, civili e sociali.
Sono soggetti fondamentali, chiamati a ripensare e a innovare profondamente la loro azione proprio per tornare a svolgere con pienezza il ruolo che è loro.
Ecco quindi un punto fermo: il valore del lavoro e la garanzia di tutela e protezione sociale. Da affermare non tornando al protezionismo. Piuttosto con nuove e concrete politiche di welfare (e con regole severe sul fronte finanziario, con vincoli saggi e scelte coraggiose su quello ambientale), che riconoscano la nuova realtà globale, che creino un efficace sistema di ammortizzatori sociali, che garantiscano la formazione a chi perde il posto e sostengano la transizione da un lavoro all’altro.
E poi usando anche la leva fiscale per incoraggiare lo sviluppo di quelle attività che sostengono la crescita, e quindi la ricerca, la formazione, gli investimenti in tecnologia, piuttosto che per continuare a premiare chi fabbrica denaro con altro denaro.
E’ ora di dirlo, e di ripeterlo fino a quando sarà necessario: non è possibile che a chi trae i propri guadagni da speculazioni, da quelle che sono vere e proprie scommesse sui mercati finanziari, sia applicata una tassazione molto più bassa rispetto a chiunque si guadagna da vivere in qualunque altro modo.
Non è solo un’ingiustizia clamorosa. E’ difficile semplicemente capire perché questo possa essere accettato, perché anzi troppo spesso succeda che i “maghi” della finanza siano considerati più degni di ammirazione di un imprenditore, di un artigiano o di un commerciante che rischia in proprio o di chi, giorno dopo giorno, fa onestamente il proprio lavoro e contribuisce al buon funzionamento dei servizi e alla crescita dell’economia di un Paese.
Su tutto, come condizione, c’è proprio questo, c’è il sostegno alla crescita. Il centrosinistra ha impiegato troppo tempo a far serenamente e convintamente suo il principio che nulla è possibile senza la crescita, che senza di essa non può esserci giustizia sociale. Ma ora che questo è finalmente avvenuto, proprio il centrosinistra deve avere l’orgoglio e la determinazione di affermare che le strategie di crescita non funzionano senza equità e uguaglianza di opportunità, senza attenzione alla distribuzione del reddito e all’accesso a servizi pubblici di alta qualità.
La funzione, l’identità stessa di una forza di centrosinistra, si colloca, come Anthony Giddens ha ben sottolineato, su più dimensioni, lungo una scala che ha come gradini i grandi principi dell’eguaglianza e della solidarietà, da declinare ovviamente in modo nuovo e nelle nostre società, che sono degli individui e non delle classi; la scelta dell’innovazione e della sfida ai paralizzanti conservatorismi di ogni tipo; la tensione verso una società fatta sì di individui singoli e liberi, ma al tempo stesso tenuta insieme da un tessuto unitario, da una condivisione di responsabilità, contro il cinico abbandono alla “spontaneità” degli egoismi sociali; l’aperta relazione con le differenze culturali.
Un riformismo globale: concrete proposte sui decisivi piani della progettualità politica e istituzionale, della protezione sociale e della socialità, della modernità e della multiculturalità; e poi capacità di decidere in base a una visione, a principi, che considerino le conseguenze non solo per chi è contemporaneo o vicino, ma anche per le generazioni future e per chi abita insieme a noi questo mondo.
Solo così si governa il cammino, che non può proseguire se non su una strada: quella dell’apertura agli altri e al mondo.
Senza disperdere nulla del valore positivo che hanno l’identità, il territorio, le comunità locali e la loro cultura, soprattutto in Italia, nel Paese delle cento città. Ma comunque, apertura agli altri e al mondo. Le radici possono servire, di certo servono le ali.
Qualcuno, tra gli altri Peter Mandelson, certo non un politico sospettabile di scarso pragmatismo e di poca concretezza, ha detto pensando all’integrazione mondiale ed europea che l’apertura in atto va “umanizzata”.
Ecco, in fondo è di questo che alla fine si tratta. Non è certo impresa da poco. Anzi, è un compito assai difficile. C’è una moderna “questione sociale”, come ha sottolineato Alfredo Reichlin, che se non affrontata diventerà esplosiva.
A noi il grande compito di accendere, contro la paralisi della paura, una razionale speranza di cambiamento.
E’ possibile. Guardiamo oltreoceano, dove tra pochi mesi si porterà lo sguardo del mondo.
George W. Bush è stato la prova vivente di questa regola aurea della politica democratica. Nessuno più di lui ha fatto leva sulla paura, dopo il tremendo choc dell’11 settembre. Grazie alla paura, Bush ha rivinto trionfalmente le elezioni del 2004, ma non è riuscito a governare, cioè a produrre soluzioni concrete e solide. Né per il mondo, né per gli Stati Uniti. La guerra all’Iraq si è dimostrata solo un cruento diversivo, che ha distolto forze militari ed energie politiche dall’Afghanistan ed ha prodotto come unico risultato geopolitico il rafforzamento dell’Iran.
Più in generale, l’amministrazione Bush ha dissipato la straordinaria eredità di Clinton, che gli aveva consegnato un’America forte, economicamente solida, rispettata nel mondo: anziché lavorare alla costruzione di un nuovo ordine mondiale, fondato sul diritto internazionale, ha pensato di poter gestire lo straordinario potere di cui dispone l’unica iperpotenza in chiave unilaterale.
Sapremo in novembre se l’America vorrà girare pagina, affrontando le sue paure, provando a governarne le cause, tornando a credere nella capacità della politica di umanizzare il mondo, riprendendo il controllo di processi storici che oggi paiono senza guida.
“Change”, cambiamento, è la parola d’ordine del candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti: Barack Obama, al quale rivolgiamo il più caloroso abbraccio di augurio.
Il mondo è stato rimesso sui piedi: se la destra alimenta le paure e torna a proporsi come forza conservatrice, i democratici scommettono sulla speranza umanistica nel cambiamento.
“Change – ha detto Obama nel suo discorso di vittoria alle primarie – è capire che far fronte alle minacce del nostro tempo richiede non solo la nostra potenza di fuoco, ma la forza della nostra diplomazia… Change è costruire un’economia che remuneri non solo la ricchezza, ma il lavoro e i lavoratori che l’hanno creata”.
Il cambiamento possibile contro la paura del futuro. Questa è la scommessa dei democratici americani.
Ma “cambiamento” vorremmo divenisse la parola chiave anche di una rinascita delle forze democratiche, riformiste, progressiste in Europa.
Il No irlandese al trattato di Lisbona è un segnale inquietante. I popoli voltano le spalle all’Europa. E’ come se la percepissero come parte del problema, il problema di una globalizzazione senza guida, anziché come parte essenziale della soluzione.
Solo un’Europa più forte e più unita, capace di parlare con una voce sola, può invece consentire ai popoli europei di evitare il rischio della irrilevanza nel mondo “post-occidentale”.
Per questo chiediamo al governo di sciogliere le ambiguità della sua maggioranza e di chiarire qual è la sua posizione. E’ quella contenuta nelle parole vagamente tranquillizzanti pronunciate ieri dal Presidente del Consiglio o quella del ministro Calderoli che brinda ringraziando il popolo irlandese per il voto sull’Europa e festeggia quella che considera la morte del Trattato di Lisbona?
E a questo proposito: è in grado il governo di procedere con sollecitudine alla ratifica in Parlamento del Trattato? O piuttosto si farà bloccare da “avvertimenti politici” come quello inviato dalla Lega ieri alla Camera nel voto sul decreto rifiuti?
Temo sia solo una delle prime dimostrazioni di quanto abbiamo detto sempre in questi mesi: quello schieramento elettorale e questa maggioranza erano e sono più il residuo della vecchia stagione delle coalizioni “contro” che una risposta adeguata alla sfida dell’innovazione politica lanciata dal Partito Democratico.
E ancora: noi chiediamo al governo di assumere un’iniziativa in sede europea per individuare un gruppo di Paesi disponibili e interessati a procedere verso una più stretta e forte integrazione politica.
A cominciare dalla costruzione di una politica economica comune, che valorizzi l’Euro non solo sul piano della stabilità, dove ha svolto un ruolo di straordinaria efficacia, ma anche su quello della crescita, dove invece è ancora ben lontana dall’esprimere appieno le proprie potenzialità.
Cosa vuole fare il governo: schierare l’Italia tra i paesi europei che intendono scommettere sullo straordinario potenziale di crescita che il mercato unico rappresenta? O invece intende porre anche il nostro Paese tra quelli che si attardano a difesa di indifendibili e controproducenti barriere protezionistiche?
L’Europa deve cambiare. C’è bisogno di più e non di meno Europa. E c’è bisogno, al Parlamento di Strasburgo, di un grande gruppo riformista e democratico, che lavori per far compiere un salto di qualità al processo di integrazione europea.
Questo è ciò che stiamo dicendo, proprio in questi giorni, ai nostri amici socialisti e ai nostri amici liberali europei.
E’ esattamente l’opposto che pensare che l’Europa sia una grande Italia. Piuttosto, da italiani, vorremmo contribuire, uniti, a rendere più grande e forte l’Europa. E pensiamo che le famiglie politiche europee potranno veder crescere il loro ruolo e il loro significato, agli occhi sempre più scettici dei cittadini europei, solo se sapranno scommettere sulla loro capacità di rilanciare il processo di integrazione.
La nostra è un’identità nuova in Europa e come tale è un’identità che è e resterà autonoma. Ma autonomia non significa solitudine. Tanto meno può significare dividersi tra di noi in gruppi diversi che ricalchino le vecchie provenienze.
Noi stiamo costruendo relazioni strette del PD con il Pse, con i liberaldemocratici europei, con i Democratici americani, per favorire il formarsi di un grande campo dei riformisti, dei democratici, dei progressisti, sia in Europa che nel mondo. Per quanto riguarda il Parlamento di Strasburgo, sarà un fatto nuovo se i socialisti, come è da auspicare, favoriranno la nascita di un nuovo gruppo aperto a forze che non facciano parte del Pse.
Ciò che stiamo costruendo è una soluzione che consenta al nostro partito di armonizzare la sua autonomia e la sua identità senza che questo significhi isolamento in Europa.
Questo vuol dire che quale che sia la collocazione che avrà il gruppo del PD a Starsburgo noi dovremo lavorare per la costruzione di questo vasto campo che comprenda democratici, socialisti e liberali europei.
Oggi, ad otto mesi dalla nascita del Partito democratico, e a due mesi dalla sconfitta elettorale, la parola torna dunque all’Assemblea nazionale.
Davanti a noi, come sempre avviene nei momenti critici, c’è una domanda semplice.
La strada che abbiamo imboccato otto mesi fa, per quante curve e salite possiamo avere davanti a noi, è quella giusta, quella che ci può portare non solo al governo, ma ad aprire un ciclo politico nuovo nella storia d’Italia, o invece la sconfitta ci dice che dobbiamo tornare indietro e cambiare strada?
Rispondere a questa domanda, in modo sereno e limpido, è necessario e urgente, se vogliamo evitare il logoramento di un lungo, estenuante dibattito interno, opaco e inconcludente. E se vogliamo invece dare, prontamente, incisività e respiro strategico alla nostra opposizione in Parlamento e nel Paese.
Per parte mia, in questi due mesi di riflessione, di studio, di confronto negli organismi del partito, di dibattito in tutta Italia, mi sono rafforzato nel mio convincimento che la linea che abbiamo scelto tutti insieme è quella giusta. Ma che essa ha bisogno, e per questo siamo qui, di ulteriori innovazioni e soprattutto di un partito che la esprima in modo efficace.
Non solo non è stata la linea seguita in questi mesi a portarci alla sconfitta, ma è anzi grazie a quella bussola se siamo riusciti ad attraversare una tempesta di dimensioni ben più grandi dei nostri confini nazionali. E se disponiamo oggi delle coordinate fondamentali di una strategia di risposta e di rivincita.
Ce lo dice innanzi tutto l’analisi del voto: un voto complesso e dalle molte facce.
La prima faccia del voto del 13 e 14 aprile, quella più evidente e chiara, è la sconfitta: abbiamo perso le elezioni, perché grazie al voto popolare Berlusconi è tornato a Palazzo Chigi e c’è il centrodestra al governo del Paese.
Proprio perché siamo un partito “a vocazione maggioritaria”, se non riusciamo a conquistare la maggioranza dei consensi necessaria a governare, ci sentiamo e siamo sconfitti, qualunque sia la cifra proporzionale che come partito riusciamo ad ottenere.
Per di più, la sconfitta c’è stata anche sul piano quantitativo: lo scarto tra noi e il Pdl è di un milione e mezzo di voti, che diventano più di 3 e mezzo con l’apporto dei rispettivi alleati: Lega Nord e autonomisti meridionali da una parte, Italia dei valori dalla nostra.
Uno scarto ampio, che non sarebbe stato colmabile neppure ipotizzando di poterci avvalere dell’apporto della Sinistra Arcobaleno e dei Socialisti, che insieme non raggiungono il milione e mezzo di voti.
Anche lasciando fuori dai blocchi i 2 milioni di voti dell’Udc, con l’apporto della Destra di Storace e Santanchè il centrodestra avrebbe comunque mantenuto un vantaggio di quasi 3 milioni di voti.
L’ipotesi della sommatoria è peraltro solo un’ipotesi di scuola. Si tende infatti troppo facilmente a dimenticare che le elezioni del 13 e 14 aprile non sono state elezioni a scadenza naturale, ma elezioni anticipate, dopo l’interruzione traumatica della legislatura più breve della storia della Repubblica.
E che quella crisi non è stato il frutto di un incidente di percorso, ma del riproporsi, per la seconda volta in un decennio, e in forme se possibile ancora più gravi del 1998, di una rottura strategica con Rifondazione comunista e le altre forze che hanno dato vita alla Sinistra Arcobaleno. Questa volta in un contesto di disperante frammentazione che ha segnato tutta la legislatura.
Più precisamente ancora: l’esperienza politica dell’Unione è andata in crisi non solo per la crescente difficoltà a fare sintesi nella maggioranza attorno all’azione di governo – sulla politica estera e di difesa come su quella economica e sociale, dalle politiche ambientali e infrastrutturali fino alle questioni eticamente sensibili – ma perché la sintesi, anche quando faticosamente veniva raggiunta, anziché allargare il nostro consenso nel Paese, finiva per logorarlo, consumarlo e ridurlo.
Dopo mesi di allarme di tutti i sondaggisti, la riprova di questa pericolosa tendenza venne dalle elezioni amministrative del maggio 2007. Un test parziale, dal quale emersero però indicazioni chiare e univoche: non solo l’Unione perdeva – e perdeva in tutta Italia – ma perdeva a spese innanzitutto dei Ds e della Margherita, le due forze che avevano appena deciso, nei rispettivi congressi, di dar vita al PD.
Scrive Marco Alfieri, nel suo graffiante pamphlet sul “Nord terra ostile”: “Con le amministrative del giugno 2007, in Lombardia, Veneto e Piemonte – 18 milioni di abitanti e 2 milioni di imprese che producono il 38 per cento del pil e il 53 per cento dell’export italiano – il divario Unione/Cdl tocca livelli mai raggiunti in passato. Cadono come birilli Monza e Verona, Asti, Alessandria, Gorizia e Belluno, mentre la ‘rossissima’ provincia di Genova viene rivinta solo dopo un ballottaggio tiratissimo. Nel milanese crollano uno a uno, spostandosi a destra, storici bastioni come Rho, Melegnano, San Donato, Garbagnate… Il forzaleghismo ha invaso ormai quasi tutta la provincia… Non aver saputo seriamente scalfire il monopolio della Casa della libertà sui territori che corrono sotto l’arco alpino ha riportato, una dopo l’altra, all’ovile berlusconian-bossiano, tutta una serie di medie città di una ‘padania’ che sembra ormai aver divorziato dall’Unione”.
Ma i problemi non si fermano a Nord del Po: anche nelle regioni “rosse”, scrive ancora Alfieri, nel 2007 “qualcosa ha cominciato ad incepparsi. In primo luogo sul fronte dell’astensionismo: il calo dei votanti è stato addirittura superiore al dato nazionale. Mai successo… In secondo luogo sul fronte dei comportamenti di voto. In otto dei tredici comuni superiori a 15 mila abitanti il centrosinistra ha perso consensi rispetto alle elezioni precedenti (in media –12,4%). In sette delle otto città amministrate dal centrosinistra si è dovuto ricorrere al ballottaggio per eleggere il nuovo sindaco. Più in generale, in tutti i comuni si è registrato un calo generalizzato dell’Ulivo. In 10 casi su 12 una contrazione media del 9 per cento, ma con punte anche del 15, rispetto al risultato 2002 di Ds e Margherita”.
Su un terzo fronte ancora, quello del voto dei cattolici praticanti, una accurata ricerca dell’Ipsos, pubblicata nei giorni scorsi, ha documentato che nella primavera 2007 le intenzioni di voto a favore dei partiti dell’Ulivo, che erano attorno al 35 per cento un anno prima, erano precipitate al 20 per cento: 15 punti in meno in un anno.
La stessa ricerca documenta tuttavia che alle elezioni politiche il Partito Democratico ha riconquistato in pochi mesi tutti e 15 i punti persi nel 2007, tornando a quella quota 35 che fa del nostro un partito votato da una percentuale di cattolici praticanti simile se non superiore a quella che ottiene nell’elettorato nel suo insieme.
La curva del consenso al PD tra i cattolici praticanti traccia una sorta di “V”: un segmento in forte discesa tra il 2006 e il 2007 e uno in ripida salita dall’estate del 2007 alle elezioni del 2008.
Lo stesso andamento ha avuto in buona sostanza la curva dei consensi complessivi al PD. In un contesto segnato dal fallimento politico dell’Unione e dalla conseguente, traumatica interruzione della legislatura, abbiamo raccolto 12 milioni di voti, un elettore su tre, un risultato sia in percentuale che in cifra assoluta migliore di quello dell’Ulivo nel 2006 e di gran lunga superiore alla somma di Ds e Margherita.
E’ questa la seconda faccia del voto del 13 e 14 aprile: una faccia che non nasconde né attenua la prima, quella della sconfitta, ma ci consente di affrontare il nuovo scenario politico “a partire dal PD” e non, come pure poteva accadere se si fosse confermato il trend del 2007, “senza il PD”.
Se non avessimo introdotto e perfino enfatizzato una forte discontinuità tra il PD e l’Unione, se non avessimo invece ripreso lo spirito dell’Ulivo, che nasceva come aggregazione delle forze riformiste, nella migliore delle ipotesi avremmo subito la stessa sconfitta, sul terreno della competizione per il governo, ma non avremmo salvato il progetto e la forza del Partito Democratico.
Voglio essere chiaro su questo punto: per me l’Unione nascondeva una contraddizione con l’idea originaria dell’Ulivo. Per me il Partito Democratico è l’Ulivo del ’96 che si è fatto finalmente partito.
Se non avessimo scelto la discontinuità oggi, di fronte al governo Berlusconi, non ci sarebbe il più grande partito riformista della storia italiana ma un disordinato campo di forze, senza un progetto, una strategia, una leadership. Non ci sarebbe, cosa della quale dovremmo tutti avere più consapevolezza e anche più orgoglio, una forza elettorale all’altezza degli altri grandi partiti riformisti europei.
I Laburisti inglesi, con la guida di Tony Blair, hanno vinto le elezioni per tre volte consecutive, l’ultima nel 2005, con il 35,3% dei voti. Nello stesso anno i socialdemocratici tedeschi hanno registrato il 34,2% dei consensi, ed è su quella base che ora governano insieme alla Cdu nella Grosse Koalition. I socialisti spagnoli hanno vinto le elezioni nel 2004 col 42,6% e nel 2008 col 43,6%. Quando qualche anno prima, nel 2000, le persero con il 34,4% evidentemente non si scoraggiarono, da lì ripartirono per la rivincita, insieme a Luis Zapatero.
E’ vero: una parte del risultato positivo del Partito Democratico è il frutto della dimostrata capacità di attrazione di elettori che nel 2006 avevano votato per Rifondazione o le altre forze che hanno poi dato vita alla Sinistra Arcobaleno.
Ma non si tratta, a ben guardare, di un gioco a somma zero, di una mera partita di giro: si tratta della dimostrazione, politicamente assai rilevante, che per molti elettori di sinistra, al contrario di una parte dei gruppi dirigenti di quei partiti, la politica non può mettere tra parentesi la questione del governo e ridursi ad un esercizio di rappresentazione identitaria.
E invece si legge nel documento proposto da Claudio Fava alla riflessione di Sinistra Democratica: “Siamo stati puniti per gli esiti deludenti dell’azione del governo Prodi”. Parole simili riecheggiano nel dibattito interno a Rifondazione comunista e alle altre forze che avevano dato vita alla Sinistra Arcobaleno.
Noi pensiamo, al contrario, che il governo Prodi abbia realizzato risultati straordinari per il Paese: dal risanamento finanziario, riassunto nella revoca, da parte della Commissione europea, della procedura di infrazione del patto di stabilità, avviata contro l’Italia dopo il fallimento della politica economica di Tremonti; alla politica estera e di difesa, con l’accresciuto prestigio dell’Italia nel mondo.
Il problema del governo Prodi, il fattore che ne ha minato alle fondamenta la credibilità, è stato il carattere frammentario e rissoso della coalizione dell’Unione: è stata l’Unione a indebolire il governo e non il governo a deludere gli elettori dell’Unione. Un chiarimento su questo punto è indispensabile, non per puntiglio storico, ma per ragionare sul futuro.
Le forze che avevano dato vita alla Sinistra Arcobaleno sono ora alle prese con una riflessione e un dibattito interno che rispettiamo e al quale guardiamo con attenzione e interesse. Ci auguriamo, lo dico con la franchezza che credo possiamo permetterci, in ragione di una lunga amicizia con molti tra i loro dirigenti e militanti, che queste forze lascino alle loro spalle l’idea di altri tempi del “partito di lotta e di governo”.
Quando si sta al governo si governa. E l’unica lotta che è ammissibile – e anzi augurabile – è quella contro i problemi del Paese. In ogni caso, non si lotta contro il governo del quale si fa parte.
I risultati elettorali dei quartieri o dei distretti industriali sono lì a dimostrare che è proprio tra gli operai che il divorzio della Sinistra Arcobaleno col governo ha incontrato il rifiuto più netto.
Divorziando, per la seconda volta, dal governo, i gruppi dirigenti dei partiti della Sinistra Arcobaleno hanno finito per divorziare dalla parte prevalente del loro stesso elettorato, che ha disertato le urne o ha votato il PD, pur tra dubbi e riserve, proprio per la credibilità della proposta di governo che noi abbiamo saputo mettere in campo.
Questa è stata la nostra principale risorsa, il messaggio che ha salvato il Partito Democratico, riconsegnandogli intatta ed anzi accresciuta la sua forza e suscitando attenzione e interesse in aree della società italiana che pur non avendoci votato, per la prima volta non hanno escluso di poterlo fare in futuro.
E’ stata quella che abbiamo chiamato la scelta di “andare liberi”: liberi di parlare al Paese il linguaggio della verità, liberi di guardare in faccia, in modo laico, cioè non filtrato dall’ideologia o dal moralismo, i problemi reali degli italiani e di sforzarci di produrre risposte credibili e convincenti.
La libertà non è, non è mai stata, nella nostra visione, né narcisistica ricerca della solitudine, né arrogante presunzione di autosufficienza. E’ stata, questo sì, un capovolgimento strategico del rapporto che lega la costruzione delle alleanze con la definizione del programma di governo.
Per quindici anni, il bipolarismo italiano si è strutturato attorno al primato delle alleanze, le più ampie, sterminate, eterogenee possibile, fondate e tenute assieme non da una comune visione del futuro del Paese, ma dal solo obiettivo di battere l’avversario. Col risultato che le contraddizioni nascoste nella fase di costruzione dell’alleanza, finivano per esplodere nel pieno dell’azione di governo, seminando sconcerto e delusione tra gli elettori e ponendo le condizioni per la inevitabile sconfitta successiva.
C’è stata una sola eccezione, in questa lunga e ininterrotta teoria di coalizioni fragili e di governi precari: il governo dell’Ulivo, quello che con Prodi portò l’Italia nell’Euro, il governo che raggiunse vette storiche di popolarità nel pieno di una delle più pesanti manovre di risanamento finanziario della storia repubblicana.
Non a caso, la caduta di quel governo suscitò nel Paese sconcerto, rabbia e perfino dolore autentico. E non a caso, da quel sentiero interrotto, prese origine il “mito” dell’Ulivo: il sogno di fare di quella che è sempre stata qualcosa di più di una semplice coalizione, un soggetto politico nuovo, una casa comune per tutti i riformisti, in definitiva un grande Partito Democratico.
E proprio perché è dalla straordinaria esperienza dell’Ulivo che il PD deriva la sua radice più profonda e più importante, torno a chiedere a Romano Prodi, davanti e insieme a tutti voi, di restare presidente di questa grande assemblea del popolo dei democratici.
La nascita del PD ha introdotto una discontinuità sostanziale. Abbiamo utilizzato una legge elettorale pessima, inventata per esasperare la frammentazione nell’ambito di coalizioni eterogenee, per semplificare drasticamente il sistema politico italiano e porre così almeno le premesse per una riforma compiuta: della legge elettorale, dei regolamenti parlamentari, di alcune circoscritte norme costituzionali.
Una riforma – su questo voglio essere molto chiaro – che deve aiutarci ad andare avanti, nella costruzione di un bipolarismo incardinato su grandi partiti a vocazione maggioritaria, che assicurino competizione trasparente tra alleanze e proposte di governo alternative, stabilità degli esecutivi e coesione delle maggioranze politiche.
Abbiamo introdotto questo elemento di dinamismo all’interno di un sistema politico in avanzata crisi di efficienza e di credibilità perché abbiamo scelto unilateralmente di presentarci alle elezioni, capovolgendo la gerarchia tra coalizione e programma.
Abbiamo detto mai più coalizioni che si compongono solo per battere l’avversario e a questo obiettivo sacrificano la chiarezza e la credibilità del programma di governo. Una scelta che ha avuto ed ha per noi il valore di una scelta strategica. Dirò di più: di un principio costitutivo del partito nuovo che abbiamo messo in campo. Ho avuto modo di definirla, una volta, una scelta “anti-machiavellica”: per noi la politica non esaurisce il suo significato nella lotta per la conquista e la conservazione del potere.
Questa è semmai la sua dimensione tecnica, che Machiavelli ha insegnato a non trascurare. Ma il significato della politica, il suo valore umano, il suo spessore etico, sta nel mettere insieme le idee e le forze, in un unico, inscindibile sistema, volto ad intervenire nella storia umana, per ridurre la peraltro mai compiutamente eliminabile presenza in essa del male, del dolore, della violenza, dell’ingiustizia, della sopraffazione. E a piegarne umanisticamente il corso verso mete, certo parziali e mai irreversibili, di pace, di libertà, di giustizia, di sviluppo, di moltiplicazione delle opportunità per il maggior numero di esseri umani, di diritti civili riconosciuti ad ognuno, dentro società che considerino le differenze una ricchezza, rispettino le scelte di ognuno e si oppongano a qualunque forma di discriminazione e di intolleranza.
Questo per noi è governare: non è solo ben amministrare l’esistente, tanto meno solo occupare il potere in una gara insensata tra competitori tra loro pressoché identici. Governare per noi democratici è riformare, dare nuova forma, per quanto possibile, alle cose, ai processi storici, ai rapporti di forza e di potere tra gli uomini.
Vorremmo, vogliamo, non essere da soli in questa impresa. L’impresa di dare nuova forma all’Italia, di farla uscire, in avanti e non all’indietro, dalle contraddizioni storiche che da troppo tempo ne ostacolano la crescita e lo sviluppo.
Per questo noi abbiamo ed avremo una politica delle alleanze. Che tuttavia non potrà più essere coniugata nei modi tradizionali. Non solo perché le alleanze possono risultare solide solo se si costruiscono sulla base del programma di governo e non viceversa. Ma anche perché la garanzia della realizzazione del programma può venire solo dalla presenza di una grande forza riformatrice che sia il baricentro dell’alleanza.
Quella grande forza riformatrice che oggi finalmente, per la prima volta, l’Italia ha.
E’ in questa prospettiva che guardiamo con attenzione e rispetto a ciò che avviene alla nostra sinistra, così come siamo interessati al dialogo con l’Udc e con i Socialisti.
Voglio qui rassicurare Pierferdinando Casini: noi riconosciamo il ruolo dell’Udc e abbiamo apprezzato il coraggio col quale ha saputo difendere la sua autonomia, anche se questa si sarebbe certo dispiegata con più successo se non si fosse aspettato l’ultimo momento e la decisione di Berlusconi di porre fine alla Casa della Libertà. Noi auspichiamo di poter lavorare insieme non solo per coordinare le opposizioni in Parlamento, ma anche per affermare non un bipartitismo, ma un nuovo bipolarismo fondato su chiare alleanze per il governo e non più, come la stessa Udc ha tante volte denunciato, su coalizioni tenute insieme solo dalla logica del nemico comune.
A Riccardo Nencini, ai socialisti italiani, voglio dire che noi rispettiamo l’autonomia che essi rivendicano e pensiamo che sia non solo interesse, ma valore comune, creare le condizioni per ritrovarci. Ma questo potrà avvenire solo apprezzando reciprocamente l’identità di ognuno e con l’intelligente umiltà di sapere che il riformismo ha nell’unità e nella forza le ragioni della sua grandezza.
E comunque: sia che si tratti di intese locali che di un confronto sulla politica nazionale, quel che conta sono per noi i contenuti programmatici, che devono risultare, agli occhi di un Paese sempre più critico ed esigente, come una credibile e convincente proposta di governo.
Questa linea politica si basa su un presupposto teorico che può apparire ambizioso e tutt’altro che autoevidente. E’ il presupposto che si possano, con l’azione politica e la proposta programmatica, modificare i rapporti di forza, non solo e non tanto tra le forze politiche, ma nel Paese. Che si possa, in altri termini, contendere al centrodestra la maggioranza dell’elettorato, spostando con la nostra iniziativa orientamenti profondi della società italiana.
Le prime ricerche, i primi approfondimenti sulla struttura del voto del 13 e 14 aprile scorsi, ci dicono quanto il PD rischi di trovarsi rinchiuso negli stessi, per noi oggi troppo angusti e comunque minoritari, confini storici della sinistra italiana.
E’ sempre un errore, un grave errore, sottovalutare la forza delle tendenze storiche di lungo periodo. E tuttavia, non possiamo non dirci che il Partito Democratico nasce proprio sulla base dell’ambizione di correggere, di deviare almeno in parte, la tendenza all’eterno ritorno dell’identico della politica italiana.
Se noi ci rassegnassimo all’idea che la società italiana è strutturalmente orientata a destra e che questa propensione quasi “naturale” può essere solo episodicamente aggirata, attraverso il gioco tattico della scomposizione e ricomposizione di alleanze sempre precarie perché eterogenee, verrebbe da domandarsi perché abbiamo voluto e siamo riusciti a dar vita ad un partito che reca nel suo dna la cifra dell’innovazione storico-politica.
Se abbiamo dato vita al PD è perché abbiamo avvertito tutta l’insufficienza delle tradizioni riformiste e riformatrici del Novecento. E abbiamo compreso che il nostro obiettivo non poteva essere solo quello di mettere insieme pensieri ormai palesemente inadeguati a comprendere e a parlare con un mondo nuovo, con una nuova società. Ma doveva essere quello di metterci insieme alla ricerca di nuovi alfabeti e di nuovi paradigmi, a confronto con gli inediti problemi del nuovo secolo.
Il risultato elettorale, peraltro, ci consegna un quadro politico che ha reso questa ambiziosissima impresa l’unica realistica. Per un verso, infatti, la crisi dell’Unione ha chiuso, io penso in modo definitivo, la fase delle alleanze eterogenee, messe insieme per vincere più che per governare. Per altro verso, la sfida che abbiamo lanciato al centrodestra con la nostra scelta di correre liberi, ha costretto i nostri avversari a rilanciare: dando vita al Popolo della libertà, peraltro almeno fino ad oggi un soggetto elettorale più che un vero partito. Come dimostra il fatto che Alleanza nazionale non si è sciolta e non è chiaro se abbia intenzione di farlo.
Anche per questo, molte sono le ragioni di ritenere che la vittoria del Pdl e della Lega il 13 e 14 aprile non abbia aperto un ciclo di lunga durata e di ampio respiro, ma segni piuttosto il tempo supplementare di una stagione ormai conclusa, quella delle alleanze costruite per vincere e che poi non riescono a governare.
Sarebbe tuttavia un errore se noi facessimo nostra la categoria della “spallata”: l’illusione che ci si possa liberare rapidamente di un governo che gode di una larga base parlamentare, oltre che, almeno al momento, di un largo consenso nella società.
Noi abbiamo scelto un’altra strada, coerente con le cose nuove che abbiamo detto e fatto in campagna elettorale, coerente con la natura innovativa e innovatrice del Partito democratico. Noi vogliamo, insieme ad altri, conquistare le menti e i cuori della maggioranza degli italiani, perché vogliamo aprire un ciclo politico nuovo, non solo contendere alla destra le spoglie di una stagione ormai finita.
Per conquistare le menti e i cuori della maggioranza degli italiani è necessario che noi per primi ci lasciamo conquistare da loro. Dobbiamo ascoltare di più il Paese e smettere di giudicarlo, se vogliamo contendere credibilmente al Pdl la funzione di “Country Party”, “Partito del Paese”, per usare un’espressione cara a Nino Andreatta.
Smettiamola, ad esempio, di dire che l’Italia è un Paese di destra. Non esistono paesi di destra e paesi di sinistra. Esistono, paese per paese, destre e sinistre più o meno capaci di leggere, interpretare e rappresentare i cambiamenti che interessano le società in cui vivono.
E se noi oggi siamo minoranza nel Paese è perché in questi anni l’Italia è cambiata, sul piano della struttura materiale come su quello della cultura collettiva, e noi non abbiamo ancora elaborato i linguaggi e le forme di una politica che sia in grado di dare risposte alle domande nuove che pone una società diversa da quella del secolo scorso.
Per fare solo un esempio, sono decenni che parliamo di fine del modello fordista. Ma nella nostra testa abbiamo ancora la catena di montaggio e il conflitto industriale attorno alla grande fabbrica.
E invece, l’Italia vive e cresce, nonostante tutto, grazie al capitalismo molecolare, alla famiglia-impresa, alle migliaia di nuove medie imprese dinamiche e vocate all’export che condensano attorno a sé decine di migliaia di microimprese e tutte insieme si muovono come sciami tra i mille fiori e le mille spine del mercato globale.
In campagna elettorale abbiamo cominciato a parlare a questa locomotiva d’Italia, che per anni, troppe volte, abbiamo liquidato come sintomo di arretratezza, quando non come brodo di coltura del sommerso, del nero, dell’evasione fiscale. E lo abbiamo fatto in condizioni particolarmente difficili, con i rifiuti di Napoli e la vicenda Alitalia a dire delle fragilità del Paese e del suo sistema decisionale.
Non ci hanno votato in misura sufficiente. Ma ci hanno ascoltato, per la prima volta da tanto tempo ci sono stati a sentire. Ora si aspettano da noi coerenza: si aspettano che impostiamo il nostro lavoro di opposizione con la stessa cultura innovativa che ci eravamo impegnati a portare nell’azione di governo.
Chiediamocelo apertamente, abbiamo avuto ragione o no, dal discorso del Lingotto in avanti, a parlare di democrazia che decide; di ambientalismo “del fare” contro ogni sindrome “nimby”; di un patto tra i produttori, lavoratori autonomi e dipendenti; di un nuovo patto tra le generazioni per garantire ai giovani precari quei diritti che i loro padri hanno visto riconosciuti? E abbiamo fatto bene a parlare dei problemi veri degli italiani, a organizzare una conferenza operaia, ad avanzare proposte concrete per le casalinghe e per la difesa nel tempo del potere d’acquisto delle pensioni? Abbiamo fatto bene a dare il segno di un partito che recupera la voglia di “farsi popolo”?
Sono convinto che la risposta non possa che essere affermativa.
E’ grazie a quella innovazione se, man mano che le contraddizioni della maggioranza e del governo verranno alla luce, anche chi non ci ha votato potrà avere un’alternativa al ritrarsi sotto la tenda della delusione e dell’anti-politica: l’alternativa di un Partito Democratico che non è il prolungamento sotto altre forme della storia delle sinistre del Novecento italiano, ma è una forza davvero innovativa, innanzi tutto sul piano culturale.
Innovando il sistema politico italiano, il Partito Democratico potrà anche contribuire, ad esempio, al rinnovamento delle relazioni tra la politica e le organizzazioni sociali e di rappresentanza degli interessi, sulla base del valore dell’autonomia.
L’autonomia delle organizzazioni sociali dalla politica, contro ogni collateralismo, è per noi un valore fondamentale. Ed è la via maestra per favorire una riorganizzazione del panorama associativo nel campo economico e sociale, che è una necessità per il Paese non meno urgente della semplificazione dello schieramento politico.
Per questo noi guardiamo con grande interesse al nuovo clima che si è andato instaurando nell’ultimo anno tra le organizzazioni sindacali confederali: un clima maturato nella comune battaglia referendaria a sostegno dell’accordo sul welfare e che più di recente ha prodotto lo storico accordo tra Cgil, Cisl e Uil sulla riforma della contrattazione e della rappresentanza.
Allo stesso modo, guardiamo con interesse ai processi unitari nel campo imprenditoriale: con l’importante e intelligente tentativo di Confartigianato, Cna e Casa, insieme a Confcommercio e Confesercenti, di dar vita ad una grande organizzazione della piccola impresa, che dia finalmente voce e rappresentanza adeguata a quella che è ormai per riconoscimento unanime la struttura portante dell’economia italiana; e con i processi di avvicinamento, di collaborazione, di integrazione tra le centrali cooperative.
Ci aspetta un lavoro di lungo respiro. Davanti a noi non c’è una pista dei cento metri e il nostro problema non è dimostrare straordinarie capacità di scatto. Davanti a noi c’è una gara di fondo e quel che dobbiamo dimostrare di avere è lucidità e polmoni grandi.
Anche perché se continueranno a governare come hanno cominciato a fare in questo primo mese, tra Alitalia, decreto su Retequattro, uscite della Lega sull’Europa, intercettazioni e Lodo Schifani, potremmo ritrovarci il traguardo più vicino di quanto non ci aspettiamo.
Per questo abbiamo bisogno di organizzarci, di lavorare senza risparmio alla costruzione di un partito grande e forte, con radici profonde nella società italiana.
In questi otto mesi abbiamo fatto un lavoro immane: abbiamo mobilitato quasi tre milioni e mezzo di cittadini elettori alle primarie del 14 ottobre; abbiamo insediato questa assemblea costituente e messo a lavorare tre commissioni per scrivere statuto, codice etico e manifesto dei valori; nel frattempo abbiamo dato al partito una linea politica innovativa e abbiamo dovuto affrontare la crisi del governo Prodi, il tentativo di salvare la legislatura e di dar vita ad un governo per le riforme; poi la redazione di un programma finalmente riformista, la selezione delle candidature e la campagna elettorale, con il viaggio nelle province italiane che ha prodotto una splendida mobilitazione di tutto il nostro popolo; infine, dopo le elezioni, la costituzione dei gruppi parlamentari e del governo-ombra, con i quali abbiamo cominciato ad impostare il lavoro di opposizione.
E fatemi dire: in questi mesi abbiamo anche compiuto passi giganteschi verso quel traguardo che tutti abbiamo a cuore: il 50 per cento di rappresentanza femminile a tutti i livelli delle istituzioni e dei gruppi dirigenti del nostro partito.
Ora è il momento che ci occupiamo di noi, del partito.
Noi non abbiamo mai parlato di partito “liquido”, perché vogliamo un partito presente in tutti gli 8 mila comuni italiani e in tutti i quartieri e le borgate delle città, un partito che si possa incontrare nei luoghi di lavoro e di studio, che si veda al mercato, in piazza, per strada.
Non un partito elitario, quindi, ma neppure un partito bolso, ridotto ad un elenco di iscritti e di tessere che esistono solo sulla carta, magari da qualche parte più numerosi dei voti che poi si prendono.
Per radicarsi in un territorio, in una comunità non basta aprire una sede. Radicamento significa vicinanza, prossimità, condivisione rispetto ai problemi reali delle persone. Perché le persone parteciperanno alla nostra vita democratica, tanto più quanto più avvertiranno che il Partito democratico si sente a sua volta partecipe delle loro speranze e delle loro angosce.
“A voi non interessa niente di me, dei miei problemi”: quante volte, volantinando davanti ai mercati o mescolandoci alla gente che passa davanti a qualche nostro banchetto, abbiamo sentito giovani precari, pensionati, lavoratori pronunciare parole terribili come queste. Sono le parole di chi ha perso non solo la speranza che la politica possa fare qualcosa per lui o per lei, ma addirittura che la politica voglia farlo. E allora radicamento significa fargli o farle sentire fisicamente e vitalmente che non è così. Che il suo problema, insieme a quello di tanti altri, è il nostro principale problema, molto di più della composizione di questo o quell’organismo e della prossima nomina o la prossima candidatura.
Allo stesso modo e inestricabilmente, radicamento può e deve essere, non solo condivisione, ma se necessario anche alterità, differenza, proposta visibile e percepibile di una vera, netta, intransigente alternativa: ci si radica, al Nord come al Sud, anche contrastando con coraggio opinioni e atteggiamenti inaccettabili, promuovendo la cultura della legalità o favorendo il superamento dei pregiudizi nei confronti degli immigrati.
Radicamento e innovazione non sono quindi termini da contrapporre, ma da coniugare, come del resto risulta chiaro dalla lettera e dallo spirito dello Statuto approvato all’unanimità dall’Assemblea costituente. Il nostro è, deve essere, un partito aperto, tutt’altro che privo di corpo e spina dorsale.
Radicamento e innovazione andranno realizzati secondo modalità diverse nei diversi contesti regionali e territoriali. E’ per questo che abbiamo dato vita ad un partito federale. Un partito che ha eletto lo stesso giorno una assemblea costituente e un segretario nazionale e venti assemblee e segretari regionali.
Noi dobbiamo nutrire l’ambizione di fare del Partito Democratico un fermento culturale per il rinnovamento morale e civile della Nazione. Una istituzione della società civile, uno strumento di incontro, di discussione politica, di formazione all’impegno civico, di democrazia deliberativa, a disposizione non solo di una ristretta cerchia di militanti, ma di tutte le persone interessate.
A cominciare dai giovani: ai quali, in modo particolare, dobbiamo saper proporre innanzi tutto percorsi di formazione: alla cittadinanza, all’impegno sociale e politico, all’assunzione di responsabilità istituzionali.
Abbiamo escluso che il compito di formare la classe dirigente per i prossimi decenni possa essere affidato a tradizionali scuole di partito, riflesso delle gerarchie interne e di un impianto dottrinario codificato.
Ci avvarremo piuttosto dell’apporto dei numerosi think tank che già esistono, di Fondazioni consolidate e autorevoli come “Italianieuropei”, o di più recente costituzione come la “Fondazione Scuola di Politica”; di centri studi e strutture di ricerca come l’Arel, il Nens, LibertàEguale, Glocus, o Astrid, che siano strumento di comprensione e di relazione con mondi diversi, della cultura e della società civile, del nostro Paese e internazionali.
Realizzeremo anche una “Summer school” del partito: quest’anno a Cortona dall’11 al 14 settembre, sul tema del rapporto tra globalizzazione e riscoperta del territorio. Vorremmo farne un appuntamento da ripetere ogni anno, alla ripresa dell’attività politica dopo la pausa estiva: una sorta di Festival della cultura politica democratica, che possa servire non solo a chi vi parteciperà direttamente, ma anche a stabilire contatti e a far circolare idee per poi moltiplicare iniziative di formazione e riflessione in sede locale.
Investire nella formazione è essenziale per un partito come il nostro: ci serve per colmare i nostri deficit di comprensione del Paese e delle sue diverse aree territoriali, per creare un linguaggio e visioni condivise sulla storia repubblicana e sul futuro dell’Italia, per attenuare le disparità regionali nelle esperienze concrete e nei modi di far politica.
Ma ci serve anche per far maturare nelle giovani generazioni un senso alto dell’impegno politico e della sua moralità. Un modo, uno stile di fare politica, che non si esaurisce in una condotta irreprensibile nell’uso delle risorse pubbliche e nell’esercizio delle prerogative istituzionali, ma deve qualificarsi per la sua competenza, la sua attitudine allo studio e la sua capacità di analisi, contro il vizio della superficialità e del pressappochismo, per la sua disponibilità all’ascolto e al rendiconto, contro il vizio dell’arroganza.
Non si tratta di moralismo, ma della consapevolezza che non si può far riamare la politica, in particolare ai più giovani, se non rimettendo in campo abitudini virtuose nell’esercitarla concretamente. Così come non si può liberare la società dalla presa di clientelismi e corruttele, fino alla dipendenza dai circuiti malavitosi, senza la moltiplicazione e la diffusione di energie sane, di forze virtuose lungo il delicato crinale del rapporto tra società e politica.
A luglio partirà la campagna del tesseramento, che dovrà essere una grande occasione per radicare il partito.
I nostri circoli dovranno diventare la frontiera dell’innovazione civile e democratica del Paese. Luoghi nei quali la gente si incontra, ragiona di politica, acquista consapevolezza della complessità, matura una visione non più solitaria, rassegnata, talora disperata del suo problema, della sua angoscia, della sua rabbia, trasforma questi sentimenti in energia positiva di trasformazione sociale, fino a riconquistare la voglia di partecipare, decidere, contare nelle scelte che riguardano il destino della comunità umana di cui si è parte.
Per questo, completare la fase di costituzione dei circoli è una priorità assoluta del partito e un dovere primario di tutte le nostre strutture regionali e territoriali. E’ necessario e urgente consentire a tutti i cittadini che guardano a noi con interesse e con disponibilità all’impegno, poter contare su sedi e luoghi ove incontrare il Partito democratico. Non può e non deve succedere che l’unica via d’ingresso nel PD finisca per essere, sul territorio, la struttura periferica di una organizzazione più o meno correntizia.
Siamo un grande partito, aperto e plurale. Un partito che raccoglie attorno a sé un terzo e noi speriamo presto di più di un terzo della società italiana. Dobbiamo quindi imparare a considerare una ricchezza l’inevitabile articolazione interna, farne una risorsa per il partito, sul piano delle idee, delle proposte, delle risorse umane.
E perché ciò accada, è importante promuovere la mescolanza tra le culture, le ispirazioni, le provenienze. E’ importante che le aggregazioni culturali e politiche non riproducano i confini delle vecchie appartenenze di partito, o peggio ancora delle vecchie correnti dei vecchi partiti, ma si ritrovino sulla base di sensibilità e orientamenti politici e programmatici che attraversino i vecchi confini.
Ci vorrà del tempo, ma ogni giorno che passa fa sì che venga maturando una identità unitaria. E comunque questo è il mio sforzo.
In ogni caso, quel che non può accadere è che proliferino le correnti personali, mentre il partito deperisce fino al punto di trasformarsi in una confederazione di potentati nazionali con le loro estese ramificazioni locali, che finirebbero col demotivare chi avesse semplicemente l’obiettivo di non partecipare ad altro se non al PD.
Non esistono regole per impedire questa degenerazione. Esiste solo la nostra volontà collettiva, il nostro impegno comune.
L’anno prossimo ci attendono due appuntamenti di grande rilievo: le elezioni europee, in un momento assai delicato della vita e per le prospettive dell’Unione, e un importante turno di amministrative. Abbiamo una grandissima responsabilità.
Verso quei dodici milioni di donne e di uomini che ci hanno dato fiducia e che non possiamo deludere. Verso tutti gli italiani, che hanno il diritto di avere soluzioni all’altezza, in grado di rispondere davvero alle loro paure, alle loro domande di rassicurazione, di cambiamento e di nuove opportunità.
Nelle mie parole di questa mattina avete ritrovato, io credo, il senso e l’ispirazione che ci ha guidato a partire dal discorso del Lingotto. E il tono di una campagna elettorale che per quanto mi riguarda io ricorderò sempre per la passione e la speranza che ho incontrato in ogni tappa di quel meraviglioso viaggio in tutte le province italiane.
Ora la sfida del Partito Democratico è chiara ed è lì, davanti a noi. E’ una sfida di innovazione e di radicamento.
Continuare a innovare noi stessi, i nostri programmi e la politica italiana.
Radicare le nostre idee e il nostro modo di essere nella vita concreta degli italiani.
Questa è la sfida del PD. Ed è la mia sfida personale.
Ora dobbiamo impiegare gli anni che abbiamo davanti a noi per fare quel che in Europa e nel mondo sanno fare le grandi forze riformiste e democratiche: essere preparati e solidali tra di noi, lavorare duramente e stringerci attorno a idee e programmi, e creare così le condizioni della nostra vittoria. Le condizioni che ci faranno passare dall’opposizione alla guida del Paese.
Con la nascita del Partito Democratico il nostro viaggio è giunto al suo approdo definitivo.
Una storia intera si è compiuta, ha trovato il suo esito aperto al futuro. E’ la storia cominciata più di un secolo fa, quando i “dannati della terra” cercarono nella solidarietà la risposta ai loro bisogni e alla loro volontà di emancipazione. E’ la storia dei braccianti che smettevano di stare con il cappello in mano di fronte al padrone e si battevano per la terra, dei contadini che fondavano le casse rurali e si difendevano dal bisogno con la solidarietà. La storia degli operai che alle rivendicazioni salariali imparavano ad unire le richieste di più diritti, più libertà, più riconoscimento della dignità del loro lavoro. La storia di chi in silenzio si oppose al fascismo, di dodici professori che preferirono dire di no al giuramento imposto dal regime, dei ragazzi che cambiarono la loro vita e quella dell’Italia scegliendo la Resistenza, dei sacerdoti che aprirono le canoniche per nasconderli e proteggerli. La storia di coloro che entrarono nell’Assemblea Costituente pensando solo a ricostruire il Paese e scrissero la nostra Costituzione. La storia delle donne e degli uomini che hanno animato le battaglie per i diritti civili e hanno reso migliore la società italiana. Quella di chi si è speso e ha perso anche la vita per difendere la nostra democrazia contro il terrorismo e quella degli imprenditori che si sono opposti al racket della mafia.
E’ la storia alla quale tutti noi sentiamo di appartenere. Fino a ieri chi ha attraversato questa storia lo ha fatto nella divisione e nella separatezza. Oggi per la prima volta siamo uniti nella stessa casa politica, nello stesso partito.
Abbiamo fatto un grande miracolo collettivo. Lo hanno fatto l’intelligenza e la generosità di tanti.
Adesso siamo una delle più grandi forze europee del centrosinistra. In un Paese che maturerà, presto, la consapevolezza di come la paura generi paura se non egoismo e violenza nelle relazioni sociali e nei rapporti individuali. Presto il Paese sentirà il bisogno e avvertirà il senso della parola speranza e della parola cambiamento.
Nulla succederà automaticamente. Ci vorrà il coraggio di resistere, oggi che l’onda conservatrice in tutta Europa sembra soverchiante. Ci vorrà il coraggio di tenere la rotta, di non tornare nei porti dai quali si era partiti per ritrovarsi smarriti e senza futuro. Il coraggio di non spaventarsi, di non pensare che tutto sia sempre scritto sull’acqua e che si debba sempre ricominciare da capo. Il coraggio di sapere che abbiamo ancora un grande lavoro da fare, che dobbiamo sentirci non “ex” di qualcosa ma fieri di una identità nuova.
Il coraggio e l’umiltà di riconoscere che proprio perché questo straordinario cammino si è compiuto, ora più che sulle forme, è finalmente sulle proposte e sulle pratiche che dobbiamo dispiegare la nostra capacità di innovazione.
Oggi abbiamo lo strumento, abbiamo cominciato ad avere idee e linguaggi. Ma dobbiamo fare un bagno di umiltà, immergerci nella società, recuperare il gusto della condivisione della vita reale delle persone.
“Farci popolo”, come una grande forza riformista deve saper fare.
Non una élite di professionisti della politica, ma una comunità immersa nelle tensioni, nelle ansie, nelle speranze della società di cui è parte.
Se sarà così sarà il Partito Democratico. Altrimenti non sarà.