Franco Giordano, lo so che è difficile: ma ti chiedo per primo il significato delle tue dimissioni annunciate da segretario. E so che questo te lo rende ancor più difficile, ma non ti chiedo ora il significato emotivo, ti chiedo quello politico delle tue dimissioni, insieme a quelle dell’intera segreteria.
A me pare evidente e direi scontato che dobbiamo disporci con umiltà ad un’assunzione collettiva di responsabilità. E’ quel che appunto proporrò. E, come pure s’è letto su qualche giornale, l’avrei fatto anche solo individualmente, su me stesso intendo. Ma sento fortissima, ora, la necessità persino vitale della responsabilità collettiva – che, ovviamente, metteremo al vaglio della discussione della nostra organizzazione. E questa responsabilità significa dare immediatamente la parola alle compagne e ai compagni di tutto il partito, che giustamente se la vogliono prendere: dargliela in maniera dirimente. Nella forma dovuta, che è quella del congresso: un passaggio che adesso è urgente, non più rinviabile.
Al congresso subito, dunque, come atto di responsabilità: un congresso sulle responsabilità?
E’ bene istruire subito questa discussione. E da parte mia intendo, con un gesto del tutto unilaterale, evitare ogni forma di personalizzazione; che ridurebbe la discussione stessa a mera futilità, nella nostra situazione. Questo gesto, credo, può invece facilitare una discussione reale su quello che è drammaticamente accaduto. L’esatto contrario d’una reticenza rispetto alle responsabilità: all’opposto, significa provare tutti insieme a discutere per reagire. L’anticipazione del congresso che ho già proposto nella segreteria di martedì e che riproporrò al Comitato politico nazionale è l’apertura di questa discussione.
Ma è una discussione che interessa solo il Prc?
Io sento che insieme sia utile aprire una discussione grande e pubblica: che possa trovare le sue sedi e i suoi spazi, estesa a tutte e tutti coloro che oggi si interrogano nelle forme più critiche sulla catastrofe. Dare insomma parola e ascolto a coloro che si sentono di sinistra, sulla nostra sconfitta. E’ un confronto da aprire già in queste ore, per lanciare una ricostruzione.
Segretario, provo a interpretare uno sguardo esterno: non è che sia molto chiara la natura del contendere nella discussione del gruppo dirigente di Rifondazione… Il tema è quello della possibilità o meno di sciogliere il partito?
In queste ore vedo che si brandisce il tema dello scioglimento del partito con una disinvoltura tale da autorizzare l’impressione che così si miri solo ad occupare postazioni congressuali ritenute più vantaggiose. Io non ho mai pensato allo scioglimento del Prc e sfido chiunque a trovare traccia del contrario. Il tema da proporre oggi proprio non è questo: anzi mi piacerebbe provare – questo credo sia l’impegno collettivo – a valorizzare una comunità e una storia, che sono le nostre, quelle di Rifondazione comunista. Ma qual è questa storia? Non certo la sua caricatura! La storia e la forza della nostra comunità sono state e sono nell’innovazione politico-culturale, in un percorso di apertura. Questa è Rifondazione comunista. E’ un progetto di permanente relazione con i movimenti e le soggettività del campo della sinistra. E dunque questo significa valorizzare la nostra storia: valorizzare l’innovazione, culturale e politica di questi ultimi 15 anni. E, perciò, significa anche tenere aperta la strada della costruzione della nuova soggettività a sinistra.
Cioè, stai dicendo che non si dà futuro del Prc senza futuro di questa “nuova soggettività”? Che le due cose non sono in opposizione?
Sì, dico che le due cose stanno insieme.
Così, però, ti confesso che la temperie del dibattito interno risulta ancora più oscura: se non è uno scontro sullo scioglimento, cos’è allora? C’è dissidio, anche in quella che era la maggioranza, sulla valutazione del peso dell’esperienza di governo sulla frana elettorale?
Io vedo, intanto, due ragioni della sconfitta che potremmo definire “oggettive” e una terza che è soggettiva, che dipende cioè dalla nostra responsabilità e che, secondo me, le sovrasta. Su quest’ultima non può esserci alcuna reticenza. Comincio dalle ragioni “oggettive”: la prima è che in queste elezioni si è impresso il segno di un’americanizzazione della società italiana, che recava tra i tanti aspetti l’auspicio della rimozione del conflitto sociale, la spettacolarizzazione della politica, la divaricazione fra una politica autoreferenziale e le dinamiche sociali. E nel pieno di questo scontro elettorale è venuto l’utilizzo truffaldino, cinico e disonesto del “voto utile”. La distanza con le destre era incolmabile, irrimediabile, il Pd ne era cosciente: ha dunque giocato la carta della nostra distruzione solo per raggiungere una soglia minima, sotto la quale sarebbe entrato immediatamente in discussione l’intero suo progetto.
E l’altra ragione “oggettiva” del disastro?
E’ che, accanto al voto utile, ha pesato la percezione netta e fondata d’uno scarto tra le aspettative di cambiamento di cui c’eravamo fatti portatori e i risultati concreti dell’azione di governo. Lo dico indipendentemente dal lavoro svolto dalle compagne e dai compagni che avevamo impegnato nell’attività dell’esecutivo, lavoro che ritengo positivo nelle condizioni date. Ma faccio tre esempi per me illuminanti, tre grandi manifestazioni: Vicenza contro la base Usa, il Pride e la più grande manifestazione degli ultimi tre lustri contro la precarietà, il 20 ottobre scorso. A diversi livelli, ne siamo stati stati fra i protagonisti: ma nell’azione di governo abbiamo incontrato un muro di impermeabilità sui temi che queste manifestazioni sollevavano. Tutto ciò ha prodotto disincanto, disaffezione, passività, astensionismo. E c’è da aggiungere che, su quelle domande di cambiamento, abbiamo trovato le più potenti resistenze, di soggetti forti cioè, non da parte di Dini o Mastella ma da parte del Pd. Per questo la ricostruzione del campo della sinistra non può che avvenire dentro un orizzonte strategico distinto da quello del Pd.
Scusa, ma in quella strettoia dell’esperienza governativa non c’è una responsabilità soggettiva? Qual è quella cui alludevi?
E’ che quegli elementi oggettivi, americanizzazione e voto utile per un verso e delusione delle aspettative sulla nostra presenza al governo per l’altro, si sono trovati al cospetto di un nostro ormai palese sradicamento sociale e territoriale. E questo si è miscelato con il fatto che un orizzonte di alternativa di società, per essere credibile, non può essere semplicemente evocato, dev’essere vissuto. Le modalità concrete con cui abbiamo dovuto in fretta e furia costruire la Sinistra Arcobaleno ci hanno impedito di lavorare su questi due terreni. Ma il radicamento è un nostro problema antico, divenuto sempre più acuto. Voglio qui pubblicamente ringraziare la generosità, la passione e l’intelligenza politica di Fausto Bertinotti, che ha provato in maniera del tutto disinteressata a supplire a questa nostra difficoltà con la sua candidatura per la Sinistra, provando a riempire il vuoto con la sua forza culturale e progettuale. Per questo ho trovato ingenerose e sgradevoli umanamente, prima ancora che politicamente, certe critiche personalizzate di questi giorni.
Registrato: ma lo sradicamento del soggetto-partitico, che tu indichi come responsabilità soggettiva, non ne pone in causa in causa la consistenza stessa? E una concezione della politica?
Guarda, queste nostre difficoltà hanno fatto dire a Nichi – intendo Vendola – che siamo stati percepiti come un residuo. Lo penso anch’io: è come se il vento dell’americanizzazione, del voto utile e del disincanto abbia travolto uno scafo già troppo fragile. Da qui dobbiamo ripartire. Il territorio e i luoghi di lavoro sono i terreni su cui provare a ricostruire.
Sì, ma come? E in cosa diversamente da prima?
Io continuo a vedere una crisi della globalizzazione, che è economica e finanziaria e che si spinge sino alle fonti energetiche. Viene da dire perciò che avevano proprio ragione i ragazzi “no global”. Dunque, una ricostruzione nostra e della sinistra si dà in un’idea di alternativa a questo modello in crisi: ma essa può nascere solo da una ricostruzione di soggettività. Il punto è: quali sono i soggetti su cui fare leva? Penso che dobbiamo battere su tre tasti: la ripresa in forme nuove del conflitto sociale, non relegandone la promozione alla titolarità sindacale ma assumendola politicamente; l’investimento da rinnovare sui movimenti; e l’investimento su quelle comunità, anche produttive, che hanno riscoperto il legame sociale e che resistono al processo di globalizzazione in una chiave rovesciata rispetto alle culture leghiste.
Un corpo a corpo con legame sociale, territorio e comunità su cui insiste Marco Revelli quando richiama lo specchio rovesciato del successo della Lega…
Ha ragione. La Lega, in una dialettica contrappositiva territorio-centro, ha recuperato come in un prisma i valori più diversi, costruendo però radici e configurando sulle paure nemici e bandiere sostitutivi del conflitto verticale: i migranti, lo scontro territoriale, l’egoismo fiscale. Noi invece nella dimensione territoriale dobbiamo riscoprire un’idea organizzativa mutualistica: il fare società di cui parla Marco, in grado di affrontare concrete risposte ai bisogni e di riorientare culturalmente. Verrebbe da dire con Lukacs: l’essere sociale e la coscienza, oggi così profondamente scissi e separati.
Detto tutto ciò resta problematico capire il “quid” della tensione interna, che non sia il macigno collettivo della sconfitta. Le divergenze sono forse sul futuro di una “soggettività” unitaria a sinistra?
Potrei dirti a questo punto che non so, non chiedere a me… Per conto mio, quel futuro l’immagino così: necessario, indispensabile e decisivo. La precipitazione che ci consegna in Italia questo voto, di cui sento così acuta la responsabilità, è che non c’è nessuno che rappresenti il conflitto, nella rappresentanza. E’ evidente che si spalanca come questione strategica quella della costruzione d’una sinistra in grado di affrontare questa situazione. Partendo, credo io, dal fatto che l’ipotesi federativa sperimentata con la Sinistra Arcobaleno si è rivelata impraticabile, dispendiosa di energie senza risultati concreti e perdente. Coloro che da sempre l’hanno sostenuta, come il Pdci, sono ora i primi a sfilarsi e avanzano una proposta di “costituente comunista” che per noi è una forma di regressione assolutamente improponibile: perché cancellerebbe esattamente la storia del Prc, la sua peculiarità, la sua diversità. Ma, ugualmente, non possiamo fermare la nostra elaborazione dentro l’alveo novecentesco, con il tema del “partito unico”. La sfida è sulla democrazia, sulla partecipazione e sull’innovazione. In questo senso è fortissimo il bisogno di una costituente: uno spazio pubblico in cui tutte e tutti possano intervenire, pesare e decidere.
In ultimo, Franco: tu, personalmente, come ti senti adesso?
Sento tutto il dolore di questi giorni. E sento anche la difficoltà a poter esternare il mio. Perché sento fortissima una grande responsabilità. La politica è fatta anche di sentimenti, di passioni; non solo di fredda, calcolatrice razionalità. E dentro tanto sgomento vedo pure tanta voglia di ricostruire e riprogettare il futuro. Tanta passione vera, appunto. Questa sconfitta peserà come un macigno nel cuore e nella testa di tante e tanti compagni. Bisogna aiutarci tutti a tenerci per mano e a tracciare collettivamente, con umiltà, con disponibilità all’ascolto, una strada. Non ci sono scorciatoie, solo passaggi decisivi. Bisogna riprovarci. Sapendo che nemmeno c’è tempo per inerzie, o calcoli personali.
Intervista al segretario di Rifondazione comunista alla vigilia del Comitato politico nazionale
di Anubi D’Avossa Lussurgiu